25/01/13

CLOUD ATLAS (di Tom Tykwer, Andy Wachowski e Lana Wachowski)




 
Tre ore abbondanti di citazionismi new age, precetti sul debito karmico, tesi sulla reincarnazione del corpo e parabole sulla trasmigrazione dell’anima.
Sei storie… Sei epoche… un prologo ed un epilogo.
Tantissima confusione, ma un messaggio forte e chiaro: le azioni hanno conseguenze!

Morpheus, in “Matrix”, offriva a Neo la possibilità di scegliere tra la pillola blu e la pillola rossa. Con la prima l’eletto si sarebbe risvegliato, il giorno seguente, nel proprio comodo lettuccio convinto di avere fatto solo uno strano sogno. Con la seconda avrebbe scoperto i segreti della matrice e salvato il mondo dal dominio delle macchine. Qui è un po’ lo stesso, con la differenza che, questa volta, siamo noi spettatori a poter decidere se rifiutare il biglietto per questo lunghissimo trip lisergico apparentemente eccessivo rispetto a qualunque scopo… oppure se accettare la sfida di non limitarsi a subire l’impatto di questo prodigio barocco e kitsch e di provare invece a decodificarlo sforzandoci di capire qualcosa. Entrambe le scelte presentano validi argomenti e ragioni a supporto. Come al solito non esiste un’oggettività assoluta e in questo caso meno che mai.
Personalmente, scelgo la pillola rossa… voglio proprio vedere quanto è profonda la tana del bianconiglio…

Buon viaggio, dunque!


Le singole vicende, pur impreziosite da un messaggio edificante, hanno assai modesto valore narrativo: c’è un ricco inglese che, all’inizio dell’ottocento, ha concluso importanti affari nel Nuovo Mondo; durante il ritorno in nave verso il Vecchio Continente viene lentamente avvelenato dal medico di bordo che vorrebbe derubarlo dei suoi averi; verrà salvato da uno schiavo che è riuscito a fuggire e ad imbarcarsi come clandestino.
C’è un giovane musicista bisessuale che negli anni ‘30 del novecento lascia l’amato compagno per andare a lavorare alle dipendenze di un vecchio compositore al tramonto della propria brillante carriera; quest’ultimo, resosi conto che il talento del giovane lo ha ormai surclassato, tenta di rubargli la paternità della meravigliosa composizione che da titolo al film.
C’è una giornalista di colore che negli anni ’70 indaga sulle magagne di una centrale atomica e che si imbatte (per caso?) nell’amante del giovane musicista della storia precedente, ormai vecchio, e nel disco in cui è incisa la citata composizione (che la giornalista non ha mai sentito e che pure riconosce).
C’è un vecchio editore che, ai giorni nostri, fa un’immensa fortuna grazie alle malefatte di uno scrittore criminale; ma i parenti del delinquente, con fare minaccioso, rivendicano una quota degli incassi; l’editore si rifugia dal fratello ma quest’ultimo, per vendicarsi di un precedente tradimento, lo rinchiude in un ospizio-prigione dal quale l’editore tenterà di evadere con alcuni compagni di sventure;
C’è un clone-cyborg con le fattezze di una giovane coreana, nella dittatoriale Neo Seul del prossimo secolo, che viene creata con l’unico scopo di lavorare dentro un fast food e di subire passivamente le angherie dei clienti e che invece, grazie alla complicità di un ribelle, guiderà la rivoluzione fino a farsi dea


Nell’ultimo episodio, ambientato in un remoto futuro, un rozzo pecoraio adora le parole di Sonmi-451 (la clone dell’episodio precedente); l’uomo vive in una landa selvaggia e il suo piccolo villaggio è costantemente minacciato dagli attacchi di feroci predatori cannibali; la visita di una donna appartenente alla schiera degli “eletti” (uomini evoluti e tecnologicamente più avanzati) gli permetterà di riscattare la vigliaccheria mostrata durante l’omicidio del fratello. I due si innamoreranno e, a bordo di un’astronave, lasceranno la terra (ormai divenuta inabitabile a causa delle radiazioni che hanno seguito la distruzione della precedente civiltà di Neo Seul) per un mondo migliore.
I sei racconti, tra l’altro, non divergono solamente per epoca storica e protagonisti, ma costituiscono ognuna un chiaro riferimento ad un preciso e ogni volta differente genere cinematografico: la fantascienza distopica, il racconto storico, il thriller, l’action, il melò e la commedia.

Il prologo è negativo: il pecoraio, in solitudine e sotto un cielo di stelle, appare invecchiato e pesantemente sfigurato, mentre blatera davanti al fuoco parole dall’oscuro significato.
L’epilogo, al contrario, è rassicurante e positivo: il pecoraio conclude il proprio racconto davanti ad una platea di bambini, i propri figli, coi quali fa poi ritorno a casa dall’amata compagna.

Un gran casino, insomma; tra l’altro, i vari episodi non vengono raccontati in modo ordinato e cronologico (uno di seguito all’altro), ma si avvicendano continuamente dando vita ad un vortice rizomatico dentro cui le singole vicende si mischiano e si sovrappongono le une alle altre. Un caleidoscopio narrativo e visivo, insomma, che trasmette, almeno per una buona metà del film, un senso di grande confusione e spaesamento.


Ma, attenzione: quella che potrebbe sembrare una cattiva gestione del racconto e del montaggio costituisce in realtà uno degli elementi più interessanti e di maggior forza di tutto il film.
La trimurti registica, infatti, ha deliberatamente scelto di montare la prima metà della pellicola in modo caotico ed apparentemente casuale (un po’ come le parole iniziali del vecchio pecoraio che suonano oscure e indecifrabili) per poi virare verso una gestione degli stacchi molto più morbida e comprensibile; il montaggio della seconda metà del film, infatti, sembra addirittura strutturato in modo tale da dare l’impressione che il passaggio da una sequenza ad un’altra non separi più storie distinte, ma partecipi di un unico insieme narrativo ordinato in sei racconti intimamente connessi e collegati gli uni agli altri. A partire da un certo punto, insomma, i sei capitoli diventano parte di un’unica grande narrazione e gli stacchi di una sequenza si coordinano alla perfezione con quella successiva, anche se tra le due ci sono secoli di distanza.
Come a voler dire che, mano a mano che il film esplica la propria filosofia (perché, a suo modo, è di una vera e propria concezione filosofica dell’esistenza che si tratta), la visione si rende sempre più chiara e intellegibile per lo spettatore: quello che inizialmente sembrava completamente slegato e del tutto senza senso, diviene sempre più comprensibile e intimamente connesso a tutto il resto.
Durante la prima ora, non solo non si afferra l’insieme, ma si fa fatica persino a capire cosa racconti ogni singolo frammento narrativo. Nel corso della visione, tuttavia, non solo le singole storie si chiarificano al punto da sembrare addirittura scontate, ma si svela del tutto anche il loro reciproco rapporto.
Credo che questa possa essere anche la ragione delle accennate differenze del prologo (delirante e solitario) e dell’epilogo (rassicurante, chiarificatore e sociale).




Ok, il rischio è di sballare di brutto e di perdersi dentro deliri cosmici degni della peggiore narrativa mistica (c’è sempre l’opzione pillola blu…).

Il film puzza di furbata lontano un miglio (d’altronde c’è di mezzo Tom Tykwer il cui “Lola corre” è, per il sottoscritto, un gratuito esercizio di stile ed uno dei più terribili film di sempre) e sa tanto di opera programmaticamente concepita solo per diventare oggetto di culto di qualche nerd in crisi d’astinenza da Final Fantasy.
Di prima battuta, dunque, tutto farebbe propendere per una bieca operazione di marketing accuratamente pianificata. E gli ingredienti ci sono proprio tutti: trama folle e caotica; visionarietà estrema; misticismo da quattro soldi; citazioni da “Evangelion” e dal meglio dell’animazione giapponese dell’ultimo ventennio; il primato di film indipendente più costoso della storia del cinema; una morale semplicistica e accomodante; un bel lieto fine… ed il marchio Wachowski Bros. a suggellare l’autenticità del tutto.

Eppure…

Diciamolo chiaro e tondo: i Wachoski hanno rovinato la vita ad ogni regista che negli ultimi vent’anni ha avuto l’ardire di cimentarsi con la fantascienza ed il cinema d’azione.
Non si era mai visto, prima di “Matrix”, un film che riuscisse contemporaneamente a soddisfare i palati fini degli intellettuali e quelli degli infuocati di scazzottate; che trovasse la quadra tra l’ortodossia del fan di science fiction ed i pipponi filosofici e pseudo religiosi del più mistico vegano. Nessuno, prima dei Wachowski, era riuscito a far convivere citazioni bibliche e dialettica Hegeliana; L’Oracolo di Delfi e P. K. Dick; Geiger e la pittura toscana del ‘500; Cartesio e il Darwinismo.
"Matrix", prima ancora che nella tecnica, ha rivoluzionato l’idea stessa di film di genere.
Il successo planetario che ne è seguito ha determinato il prolificare di una infinita serie di produzioni clone che tuttavia (forse con l’unica eccezione del progetto “Lost” di Abrams) non sono mai riuscite ad essere all’altezza del modello originale.

“Cloud Atlas” non solo replica la formula di “Matrix”, ma la aggiorna e la porta alla sua completa sublimazione: la pellicola è infatti costellata di dettagli nascosti, suggerimenti velati ed una miriade di indizi occultati.
La struttura rizomatica si presta ad analisi di ogni tipo e rappresenta una sfida aperta (ma anche un invito) a chiunque voglia provare a testarne la tenuta in termini di coerenza logica e narrativa.
Per non parlare degli infiniti riferimenti politici, religiosi, letterari che, di concerto con le innumerevoli citazioni, faranno la gioia di migliaia di fans.

Con grande sincerità, di tutto ciò mi importa assai poco.
Non mi interessa affatto se “Cloud Atlas” diventerà effettivamente il film cult del prossimo decennio; e nemmeno se gli snodi narrativi risulteranno coerenti o se invece, grazie al certosino lavoro di qualche blogger ostinato, verranno smascherati clamorosi “buchi” di trama; me ne infischio se il linguaggio del pecoraio sostituirà o meno il klingon nelle conversazioni tra nerd o se il poster di Somni-451 (ogni riferimento a Bradbury non è puramente casuale) si sostituirà a quello di Rei Ayanami. Non mi interessa nemmeno sapere quanti e quali siano gli infiniti riferimenti e omaggi più o meno velatamente presenti nel film.
Ovviamente, sono allo stesso tempo consapevole che tutto questo potrà contribuire a determinare il successo o meno dell’operazione “Cloud Atlas


Per il momento, prendo atto del fatto che – a caldo – il film è stato sostanzialmente stroncato dalla critica che l’ha tacciato di essere incomprensibile e noioso, di fare filosofia da quattro soldi, di offrire poca originalità e tanto citazionismo fne a se stesso.

Eppure…

Eppure, pur con tutti i difetti esposti (ed innegabili), “Cloud Atlas” è magico, potente intenso ed emozionante.

In realtà, nonostante l’apparente confusione, la sovrapposizione dei piani narrativi e le inquietanti derive new age, la visione è appagante e, alla fin fine, di una comprensibilità disarmante.
Il messaggio che i registi lanciano al mondo è un monito unico e semplice: vale sempre la pena lottare per affermare se stessi, perché tutte le nostre azioni hanno conseguenze sugli eventi futuri.
Sarà banale, sarà retorico, sarà melenso, ma il contenitore ha a dir poco dello strabiliante e coagula la pur abbondante emorragia di latte alle ginocchia.

La circostanza che Larry Wachowski, nel frattempo, sia poi diventato Lana, colora il tutto di un’aurea di maggior interessante e alimenta il sospetto che l’operazione sia più “sentita” che “studiata”.
Ognuna delle sei storie, infatti, è incentrata su un personaggio in lotta contro una sempre diversa forma di oppressione: la schiavitù, il razzismo, la discriminazione sessuale, la politica, la vecchiaia, il totalitarismo, la religione (o, meglio, il misticismo).
Ogni personaggio, nelle varie epoche, compie delle scelte di altruismo o di egoismo, di sottomissione o di ribellione che si rifletteranno e condizioneranno la vite dei futuri sé.
Per raccontare tutto ciò, i registi hanno deciso che ogni attore (Tom Hanks, Halle Barry, Hugo Weaving, Susan Sarandon, Hugh Grant, Jim Broadbent e Jim Sturgess) dovesse interpretare differenti ruoli: così che ognuno di loro potesse sperimentare (fisicamente e psicologicamente) il significato di essere prima uomo e poi donna, una volta bianco e un’altra asiatico, giovane e vecchio, umano e clone, ricco e povero, buono e cattivo. Tutto ciò, al fine di comprendere la complessità della vita e realizzare che, dietro il velo degli infiniti pregiudizi, la verità è tanto profonda quanto banale: siamo tutti uguali. Di nuovo, piangono lacrime bianche le mie povere ginocchia che tuttavia cagliano di fronte allo splendore della rappresentazione. Il gioco funziona a meraviglia.


Non so proprio come giudicare un film come “Cloud Atlas”: semplice furbata? mediocre accozzaglia di filosofie mistiche? epica favola fantascientifica? coraggiosa produzione cinematografica? bellissimo intrattenimento? eccelsa dimostrazione di capacità attoriali? brillante sfoggio di tecnica registica? noiosa e confusionaria favola per grandi? Forse tutto ciò insieme e molto altro ancora.

Come i protagonisti del film, ognuno di noi spettatori è chiamato ad una scelta: promuovere o bocciare, accettare o rifiutare, esaltare o criticare.

Per quel che vale, pur con tutti i dubbi e le legittime riserve, mi schiero apertamente dalla parte dei Wachowski. In “Cloud Atlas” voglio leggere ambizione e non furberia; libertà espressiva e non piaggeria; omaggio e non plagio; lirismo e non melensaggine; divertissement e non ortodossia.

Al di la dei mille difetti e delle filosofie baggiane “Cloud Atlas” è un film clamoroso. È uno dei film più rappresentativi del terzo millennio col quale condivide pregi, ambizioni e limiti: luci sgargianti, immagini incredibili, storie fantastiche, un profondo spaesamento ed il bisogno disperato di un messaggio che ridia un senso a un’epoca che pare non averne più.
Certo, i troppo colti e i troppo stupidi storceranno il naso (resta solo da vedere a quale categoria appartenga chi).
Ma se vi stuzzica un giro dentro la tana del bianconiglio, allora sono tre ore spese bene e la goduria è assicurata.



Concludo contraddicendo me stesso (ah, maledetti Wachowski!!!) e iscrivendomi, nel mio piccolo, al gioco della "pesca alle citazioni ed ai riferimenti" di cui pure volevo infischiarmi.
Ed allora, provo a riassumere il senso di "Cloud Atlas" attraverso le parole di Neo in “Matrix” (ebbene si, lo ammetto: sono uno schifosissimo nerd e potrei citarne ogni battuta a memoria):

Non credo nel destino, perché non mi piace l'idea di non poter gestire la mia vita”. Parola dell'Eletto.

Se non sono dei geni, poco ci manca… buon viaggio!






GIUDIZIO SINTETICO: Un flusso di coscienza lungo tre ore che si manifesta alla stregua di un caledoscopio all'acido lisergico per mettere in scena il viaggio dell'anima attraverso cinque secoli di storia. Vaneggiamenti mistici, banalità concettuali e grandiosa visionarietà. Matrix ci ha insegnato che ”a questo mondo tutto quello che ha un inizio ha anche una fine” anche "Cloud Atlas". Se questo è un bene o un male starà a voi deciderlo. Io mi sono divertito un sacco.

VOTO: 7 ½ (di fiducia)








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