15/02/13

GUILTY OF ROMANCE (di Shion Sono)



Colpevole di romanticismo”. La provocazione di Shion Sono è già tutta nel titolo di quest’opera imperfetta, ma allo stesso tempo incredibilmente complessa, stratificata ed ambiziosa.
Sion Sono è sicuramente uno dei più estremi ed innovativi registi del Giappone e, di conseguenza, dell’intero panorama cinematografico mondiale.
Il suo cinema è fatto di improvvise esplosioni di violenza che deflagrano nella vita di individui schiacciati da regole sociali rigide e opprimenti.
Shion Sono nasce poeta e diventa regista. Scrive e monta i propri film dei quali compone anche le colonne sonore. È un autore a tutto tondo che racconta, con uno stile tutto suo, la complessità della società nipponica.
Guilty of Romance”, attraverso la vita di tre donne (una detective, una moglie, una prostituta), prova a raccontare la condizione dell’universo femminile tutto.

La vicenda prende spunto da un fatto realmente accaduto – l’omicidio di una importante manager giapponese che di notte batteva nei love hotel di Shibuya – ma Sono se ne impossessa e, fin dalle prime sequenze, piega la cronaca alle sue personali ossessioni e visioni.

Il film comincia dentro una casa abbandonata, teatro di un barbaro delitto; sulla scena del crimine viene ritrovato un manichino al quale sono stati impiantati organi e parti di un corpo femminile. Sulle pareti, si staglia l'ideogramma “Castello” tratteggiato con il sangue. Le indagini conducono ben presto a due donne da poco scomparse...

Izumi è una bella e giovane moglie devota al suo bravo maritino, scrittore di romanzi erotici di successo, maniaco dell’ordine e freddo come un ghiacciolo. La donna vive per assecondare le folli ossessioni del compagno: dall’ora in cui deve essere servito il thè alla posizione delle pantofole all’ingresso di casa o ai lati del letto. Ogni forma di contatto è bandita e la sessualità è totalmente azzerata e frustrata. La brama di attenzioni e libertà la spingono ad avventurarsi in un lavoretto part time come commessa dentro un supermercato. Qui viene casualmente precettata da una talent-scout che la inizia al mondo delle foto e dei filmini soft core. È l’inizio della fine. Izumi, dopo le comprensibili titubanze iniziali, inizia a prenderci gusto. Si compra abiti costosi, si veste in modo provocante e (ri)scopre il gusto di essere desiderata, nonché il piacere di sedurre gli uomini. Sente finalmente il potere, ma non ne ha mai abbastanza.

Mitsuko è una giovane e bella professoressa di lettere che, nel tempo libero, batte il quartiere di Shibuya. Vive una sessualità volgare e sfrenata. È l’incarnazione di ogni eccesso. Scopriremo che la donna ha avuto un’infanzia terribile e dolorosa segnata da rapporti incestuosi col padre e segnata dal formalismo pedagogico della madre.

Le due storie, come detto, vengono ricostruite dalla detective Kazuko durante le indagini sul misterioso e macabro omicidio. Questo personaggio (nonostante i pesanti tagli subiti nella versione internazionale del film che ne hanno notevolmente ridimensionato il ruolo) ha in realtà una funzione fondamentale: non solo racconta la storia e giustifica lo stile fortemente ellittico tipico del regista, ma rappresenta anche la donna razionale, autonoma e “liberata” dalla sua condizione di figlia, amante e moglie. Kazuko si muove ed opera dentro un universo tipicamente maschile, ma il suo esser donna le offre gli strumenti per comprendere i moventi psicologici di Izumi e Mitsuko.

 
L’universo femminile viene esplorato non solo attraverso le caratteristiche proprie delle tre protagoniste (erotismo, dolcezza, sottomissione, sfrontatezza, passione, razionalità), ma il regista completa ed arricchisce il suo mosaico anche grazie ad una serie di ulteriori personaggi femminili di contorno. Tra questi, spiccano la cinica e ambiziosa talent-scout e l’inquietante madre di Mitsuko.

Non che l'universo maschile ne esca meglio: l'uomo è un burattino, completamente schiavo di una società aberrante e fortemente gererchizzata le cui sovrastrutture soffocano ogni anelito di libertà e impongono ogni sorta di conformismo. 
Shion Sono, tuttavia, è qui interessato al mondo della donna, per cui l'uomo - vittima dei medesimi meccanismi sociali, ma in condizione comunque privilegiata rispetto alla donna - si limita ad essere movente e motore delle sofferenze femminili. 
L'uomo (nella sua veste di padre, marito, amante e collega) è l’oggetto dell’amore, della devozione, dell’affetto e delle attenzioni delle donne le quali ricevono in cambio solo maggior dolore, sofferenza e mortificazione. L’amore non rende liberi ed il romanticismo è una colpa mortale che ottenebra la mente e legittima la sottomissione.

Era dai tempi del miglior Fassbinder che qualcuno non riusciva a fornire una visione altrettanto spietata e lucida dei sentimenti umani. Il regista tedesco concepiva i rapporti affettivi come la forma più sublime e perfetta di sfruttamento dell'uomo sull'uomo (più ancora del denaro). Sono, se possibile, esaspera il concetto riconducendo all'amore ed alla famiglia non solo l'origine, ma la legittimazione di ogni sopruso e di ogni nefandezza umana.
Il regista giapponese alterna continuamente registri e stili linguistici: da un lato ricorre ad un fortissimo formalismo, ad una esasperante lentezza e ripetzione delle sequenza narrative; luci e colori sono assolutamente neutri e freddi; poi, improvvisamente, il rigoroso ordine della messa in scena viene lertteralmente travolto da raptus di violenza atroce, da repentine accelerazioni di ritmo accompagnate da esplosioni di colori fluo e luci al neon. Anche i generi si fondono e si confondono: il melodramma si alterna e si sovrappone senza soluzione di continuità all'horror, all'erotismo spinto, allo sperimentalismo più estremo, fino a toccare la videoarte.

È come se dentro un film di Ozu irrompesse all’improvviso un Takashi Miike ubriaco e molesto.

 
Il ritratto del Giappone che ne esce è a dir poco impietoso. Quella nipponica è, per Sono, una società che impone schemi, ruoli, meccanismi sociali che soffocano l’individuo. Tutta la sua cinematografia è un grido di denincia fortissimo e lucidissimo avverso tale sistema di relazioni umane e sociali (su tutti invito a recuperare il grandissimo e provocatorio “Suicide Club”).

Il regista, nel corso di un’intervista, ha detto di trovare ispirazione in alcuni vecchi film giapponesi nei quali i protagonisti maturano passando da un sentimento all’altro. Credo che questo pensiero sintetizzi alla perfezione un film come “Guily of romance” nel quale, attraverso un flusso di coscienza che miscela ed alterna senza soluzione di continuità passato e presente di diversi personaggi, si racconta come una giovane figlia e una bella moglie abbiano gradatamente finito per distruggere le proprie vite alla ricerca di una qualche disperata forma di emancipazione e libertà.

Tutte le istituzioni su cui poggia e si regge la struttura sociale ne escono completamente a pezzi: famiglia, matrimonio, rapporto filiale e mondo del lavoro sono anelli della stessa catena.

L’amore, più che un male, è una colpa. È in suo nome che si subiscono e si accettano le peggiori umiliazioni; che si commettono le peggiori nefandezze; che si tollerano le più tremende vessazioni.

La famiglia, in tutte le sue manifestazioni, è la cellula su cui si fonda ogni forma di sfruttamento e di violenza; è la palestra in cui si addestra l’individuo e lo si predispone agli sfruttamenti ed alle violenze della società.

Non c'è nessuna forma di redenzione per i personaggi della storia la cui vita è destinata a finire in modo assolutamente tragico. Non è un film di speranza: il tema portante è la frustrazione che nasce in chiunque provi ad opporsi al sistema, alle regole ed al proprio ruolo sociale. Già, perchè il sistema vince sempre e la libertà non esiste nemmeno nella più estrema delle ribellioni. La fine di Mitsuko - macabramente trasformata in burattino di carne - è assai indicativa del pensiero del regista.

Non è assolutamente un caso che il film sia un dichiarato omaggio a "Il castello" di Kafka, il romanzo per antonomasia della insoddisfazione e dell'insuccesso.   

Se vogliamo, il racconto appare a tratti un po’ lungo e talvolta leggermente didascalico (soprattutto nella reiterazione di alcune citazioni del libro dello scrittore praghese); inoltre, nonostante le continue ellissi e i numeroi mutameti di prospettiva, il film procede in modo abbastanza prevedibile; ma la potenza della visione, la lucidità del messaggio e la violenza della messa in scena hanno pochi epigoni nel cinema contemporaneo. Visione obbligatoria per qualunque giovane aspirante autore. Consigliata a chiunque cerchi un Cinema non convenzionale.



GIUDIZO SINTETICO: Forse non il miglior film di Sono, ma comunque spietato, lucidissimo, folle e visionario. Ha la stessa consapevolezza e sicurezza dei pazzi o dei geni. Stiamo comunque parlando di Cinema alla sua massima espressione. Da amare o da odiare, con tutte le forze.

VOTO: 7 ½









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