08/02/13

THE FALL (di Tarsen Singh)





Ci sono film che li ami o li odi… storie che ti prendono, oppure che ti irritano fin dalla prima inquadratura…
The fall” appartiene senz’altro alla tipologia dei film “prendere o lasciare”.

Tarsen Singh non fa sconti e stila il manifesto della propria personale poetica.
Il regista di origini indiane, si sa, è un videoclipparo geniale nonché uno degli autori di spot pubblicitari più belli di sempre: è anche per merito (o per colpa) di gente come lui se ascolteremo il prossimo greatest hit dei R.E.M. o se ci compreremo l’ennesimo paio di Nike. Il suo mestiere consiste nel solleticare i desideri, nello stuzzicare gli appetiti, nel suscitare emozioni verso oggetti più o meno superflui attraveso la carica evocativa e suggestiva delle immagini...

E il mestiere lo conosce alla perfezione: il mio nome è Singh, Tarsen Singh, e so creare immagini da dio.

La sequenza iniziale di “The fall”, uno slowmotion di struggente bellezza fotografica e di rara perfezione compositiva, descrive l’incidente nel quale lo stuntman Roy Walker ha perso l’uso delle gambe. La scena ha qualcosa di veramente magico e potente, di terribile e meraviglioso. Non credo di offendere nessuno se dico che von Trier (“Antichrist”; “Melancholia”) e Malick (“Tree of Life”) dovrebbero offrire al regista indiano quantomeno un caffè...

Roy, come dicevamo, è paralizzato e trascorre la convalescenza su un letto di ospedale. In cuor suo vorrebbe morire per un amore non realizzato (l’incidente, probabilmente, era un maldestro tentativo di suicidio).
Con lui, in ospedale, c’è anche Alexandra (l'incredibile Cantica Untaru), una piccola bambinetta bulgara. Anche lei è vittima di una caduta: si è rotta un gomito mentre veniva impiegata nella raccolta delle arance.
Roy e Alexandra stanno dalla stessa faccia, assolutamente sbagliata, della medaglia. Sono quelli che hanno sempre perso e che perderanno sempre. Dall’altra parte ci stanno quelli che vincono: gli attori famosi del cinema, i latifondisti dell’assolata California, le belle donne e tutto quello che loro non saranno o non potranno mai avere. Se si avvicinano troppo ai loro desideri il loro destino è uno solo: quello di Icaro.
Entrambi sono pedine sostituibili, elementi occasionali e facilmente rimpiazzabili della macchina produttiva.
Entrambi sono prigionieri del sogno che producono. Lui, costretto a gettarsi da cavalli al galoppo, da ponti vertiginosi e da automobili in corsa ama purtuttavia il Cinema che non ricorderà mai il suo nome, eternamente oscurato dalla fama degli attori a cui risparmia i pericoli del mestiere. Lei, dal canto suo, adora le dolci arance californiane, senza rendersi conto che quei frutti profumati sono la ragione del suo sfruttamento e del suo illegittimo impiego.
Non c’è sistema peggiore di quello che ti sfrutta illudendoti amare quello che fai.


Una didascalia ci dice che ci troviamo nella Los Angeles degli anni ’20. Il posto ed il momento sono proprio quelli giusti… già, perché quello che d’ora in avanti ci attende è una sorta di viaggio dentro la magia dello sguardo, all’inseguimento della magnificenza delle immagini e nei meandri della pura bellezza del vedere. Sono gli albori della scintillante industria di Hollywood decantati e reinventati da un regista indiano che ce l’ha fatta. Tutto è splendido, meraviglioso e scintillante, anche se tutto è artificio, inganno e finzione…  Una controfigura si getta da un ponte e un attore si gode la fama. Il lavoro irregolare di una bimbetta immigrata di cinque anni si oblia dentro la dolcezza degli agrumi californiani. Come nel "Prestige" di Nolan, il sistema ci ammalia promettendo meraviglie a patto di non cedere alla tentazione di indagare i meccanismi che le generano: tutti vogliono vedere sparire la colomba nella gabbietta e nessuno deve scoprire la bruttissima fine che le tocca fare (ve l’avevo già detto che Singh è un regista di pubblicità?).

Roy e Alexandra stringono un’insolita alleanza. Il patto è che lei dovrà aiutare l’uomo a procurarsi della morfina (con la quale potrà completare il proprio intento suicida); in cambio, lui le racconterà la storia “di amore e di vendetta” dei sei valorosi che osarono sfidare il perfido governatore Odius. Questo racconto nel racconto è una favola moderna fatta di amicizia, sacrificio, amore, morte, dolore e riscatto. Se non fosse che Singh è un indiano sikh sembrerebbe la più grande celebrazione del mito americano: l’impossibile è possibile.
Il tono fiabesco e leggero, tuttavia, non tragga in inganno. Il film sembra mantenere molto più di quel promette (ma non era un regista di pubblicità?).

Chiudi gli occhi. Le vedi le stelle?” domanda Roy alla piccola Alexandra all’inizio del suo racconto. Potrebbe essere una valida alternativa al più inflazionato “c’era una volta”, ma potrebbe anche essere la morale di tutta la fiaba, per una volta nascosta nel preambolo e non svelata nell’epilogo. Forse a voler sottolineare, fin dalle premesse, come la luce della fama sia qualcosa di irreale che si può vedere solo con gli occhi della fantasia e dell’immaginazione. Non importa che un attore si getti veramente da un ponte, l’importante è che riesca a farcelo credere.
In fondo, quello di Roy è il racconto di uno stuntman disilluso che dà alla propria nemesi il volto dell’attore che gli ha rubato la scena e l’amore.


Non sono sicuro del reale significato del film. Sempre che Singh ne avesse uno ben preciso in mente.
Sicuramente c’è la volontà di rendere un immenso omaggio all’arte della meraviglia, allo stupore della visione, alla pura estasi retinica.

Il racconto di Roy è un trionfo di luci abbaglianti, colori iper-saturi e scenari da urlo
Ma non posso smettere di pensare a quell’invito iniziale: “chiudi gli occhi”…
Chiudi gli occhi e lasciati trasportare della fantasia...
Chiudi gli occhi e sogna...
Chiudi gli occhi e cedi alla meraviglia dell’immaginazione...
Ma se vi fosse di più…?

Il film è stato girato in una ventina di location, sparse in giro per tutto il mondo, alla ricerca spasmodica di luoghi bellissimi, manufatti strabilianti e paesaggi mozzafiato.
Tutti… rigorosamente… veri…!!!
Ho letto da qualche parte che il regista non ha voluto fare ricorso alla computer grafica: la vera bellezza non è un trucco o un accorgimento di postproduzione.

Ecco, allora, che “chiudi gli occhi. Le vedi le stelle? ” non appare più come un mero invito a cedere alle lusinghe dell’immaginazione, ma piuttosto un monito a fare attenzione alle sue insidie. È un invito a distinguere la bellezza dall’artificio, il coraggio dalla sua rappresentazione, l’amore dalla sua proiezione. Chiudere gli occhi permette di entrare nel sogno, ma questo facilita la sottomissione alla lusinga, consente di credere alle promesse di gloria e alle possibilità di riscatto dalla miseria del quotidiano. La vita vera, invece, è un paio di gambe spezzate ed il bieco sfruttamento del lavoro minorile che esistono solo perché si è voluto continuare a guardare con gli occhi sigillati (ma Singh non era uno che faceva pubblicità?).

Nel racconto di Roy sei prodi condottieri bramano vendetta per i torti subiti. C’è uno schiavo di colore, un dinamitardo di origini italiane, Charles Darwin, un mistico, un indiano spadaccino e un eroe mascherato. Ognuno di loro ha il volto di un personaggio dell’ospedale: un medico, un paziente, un semplice trasportatore di ghiaccio… Roy stesso impersona il condottiero mascherato e, naturalmente, il perfido Odius non può che avere le sembianze dell’attore a cui il narratore faceva da controfigura e che sta con la donna dei propri sogni.
Come nel cinema, finzione e realtà si sovrappongono e si confondono continuamente. Ma l'immaginazione e la fantasia, come detto, sono pericoli e non rifugi. Di fantasia ci si ammala, di illusione si può morire (emblematica e niente affatto casuale la malattia immaginaria del paziente psicosomatico).
Alexandra sa perfettamente di ascoltare un racconto, ma non riesce a viverlo come tale e non ne accetta le svolte negative; soffre, piange e si dispera per la sorte dei protagonisti fino al punto di entrare lei stessa nel racconto, appropriarsene e lottare con l’originario narratore per modificarne l’epilogo. Perché almeno i sogni devono avere un lieto fine. Chiudi gli occhi!


Ma Roy è stanco di vivere e si è stufato di credere nel suo stesso sogno. Il problema è che vuole trascinare con sè anche il suo personaggio, l’eroe mascherato, che ormai giunto al duello finale sta per venire sopraffatto dal perfido Odius.
La bimba protesta: piange, scalcia e singhiozza. Roy le ricorda che è solo un racconto e che è tutta finzione e che non ha più voglia di lottare, neanche nei sogni.

Ma i sogni sono forti ed i desideri si insinuano nella nostra coscienza al punto di non lasciarci altra possibilità che cedervi (e se non lo sa uno come Tasen Singh... ve l'ho detto che viene dalla pubblicità?): così il cavaliere solitario riesce a sopraffare il proprio acerrimo nemico regalando alla piccola Alexandra l'agognato happy ending.
La vera vittoria, tuttavia, non è rappresentata dalla caduta di Odius, ma nel rifiuto del falso amore impersonato dalla bella principessa ora pronta a buttarsi tra le braccia del vincitore. Il cavaliere, finalmente, capisce di essere stato prigioniero delle proprie illusioni e rinuncia alla ragazza dopo averla inseguita per mari e monti.

La vita non è un sogno e i sogni non aiutano a vivere meglio. La vita, piuttosto, prova continuamente a venderci illusioni irrealizzabili al solo scopo di tenerci occupati in attività orribili nella speranza, un giorno, di potercele permettere.

Singh ci ricorda che il cinema è illusione. Può dare sollievo, emozionare e perfino incantare, ma l'illusione può dare assuefazione e diventare la più terribile delle prigioni. Non bisogna mai confondere la realtà con la finzione, altrimenti si rischia di vivere la prima in funzione della seconda.

L'epilogo, per i nostri eroi, ha il sapore dolce-amaro del risveglio dopo un lungo sogno: la piccola Alexandra torna a fare la bracciante negli agrumeti della California, mentre Roy si deve accontentare di un risarcimento dagli Studios.
Decisamente la vita non è un sogno.

Ma non è un finale tragico. Non del tutto.
Non si sa se Roy continuerà il mestiere. In fondo non è importante. Quello che conta è che anche Alexandra abbia imparato a distinguere la realtà dalla finzione. Forse questo non le cambierà la vita, ma almeno la renderà più resistente alle lusinghe delle false promesse. Ogni volta che la bimba vedrà al cinema una sequenza spettacolare vedrà l'amico Roy e non l'immagine di un attore famoso. Dietro quei sogni che scorrono a 24 fotogrammi al secondo c’è sempre un inganno e un'illusione. Ora la piccola lo sa e forse, quelle arance, cominciano già ad aver un sapore meno dolce.

Quanto al resto, provare anche solo a descrivere la bellezza delle immagini sarebbe, nella migliore delle ipotesi, un frustrante ed inutile esercizio di stile. Paesaggi acquatici, dune desertiche, risaie verde smeraldo, città turchesi, palazzi rajastani, piramidi egizie, prigioni labirintiche… è come se le architetture di Esher si fossero materializzate dentro un cartone animato girato da Salvator Dalì.
A voler pensar male, potrebbe sembrare che “The fall” miri più a stupire che a raccontare, ad ammiccare piuttosto che a significare, a vendere piuttosto che offrire.

Tuttavia, credo che Singh abbia avuto il merito, pur tra mille incongruenze, ambiguità e contraddizioni, di aver dato vita a un’opera magnifica, unica e sublime il ricordo della cui visione appagherà di ogni incertezza interpretativa ed ermeneutica.
Che un lercio videoclipparo, nonché regista di spot televisivi, sia l’artefice di un’opera enigmatica e misteriosa, indecifrabile ed ambigua, sublime e contraddittoria credo costituisca il più bel complimento che io possa fare a Mr. Singh. 



GIUDIZIO SINTETICO: Magari non vorrà dire nulla (anche se io mi sono fatto tutto un mio viaggio...), ma in ogni caso lo dice veramente da dio.

VOTO: 7+








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