13/03/15

THE WIRE (di David Simon)



Dopo una lunghissima ed imperdonabile assenza, "24-al-secondo" prova a ritornare attivo e lo fa con la recensione di quella che, senza ombra di dubbio, è la serie più bella, importante e imprescindibile di tutti i tempi; passati, presenti e futuri.

Come “The Wire”, infatti, non ci sarà mai più nulla e, purtroppo, dobbiamo farcene una ragione. 

Questo non significa, naturalmente, che non ci saranno altre serie meravigliose e appassionanti, ma sarà molto difficile ritrovare qualcosa di anche solamente simile per influenza, potenza e fascino. 

Secondo la classifica Writers Guild of America, "The Wire" si piazza al 9 posto tra le serie meglio scritte di sempre. Ma per il sottoscritto, così come per il Presidente Obama, è e sarà sempre al n.1 di ogni classifica, in ogni categoria.

"The Wire", infatti, è stato un miracolo unico ed irripetibile che, come tutti i miracoli, è un misto di coraggio, culo, intuizione e tempismo. Si è manifestata in un’epoca, tutto sommato, ancora pionieristica ed acerba, in cui la televisione non era già universalmente considerata migliore del cinema (giudizio che si consoliderà solo negli anni a venire); in cui i coraggiosi che avevano scommesso sulle potenzialità del “via cavo” non dovevano necessariamente scontrarsi, per sopravvivere ed operare, con investimenti faraonici e numeri di ascolto mostruosi; e soprattutto, in un momento storico in cui la libertà di espressione andava a braccetto con il coraggio produttivo. Per intenderci: una roba come “The Wire”, oggi, la farebbero come “House of Cards” o “Boardwalk Empire”, che, intendiamoci, rimangono serie bellissime, ma che non fanno parte nemmeno dello stesso campionato. In “The Wire”, infatti, non ci sono super-attori famosissimi che ammiccano in camera, non ci sono concessioni al pubblico, non ci sono facilonerie che aiutano a seguire la storia e non ci sono milioni di dollari investiti in scenografie pazzesche e costumi da premio Oscar. "The Wire" è una scommessa azzardatissima (e stravinta) stretta tra quel geniaccio di David Simon e il canale via cavo più cazzuto di tutti i tempi, ossia HBO.

Cosa sia HBO, ormai, lo sanno anche i sassi. Semplicemente, il canale via cavo più antico, prestigioso e tosto degli Stati Uniti; e, quindi, del mondo. Quello che produce, generalmente, sono pugni nello stomaco allo spettatore: violenza senza filtri, linguaggio esplicito e sesso mostrato senza alcuna restrizione. HBO non ha bisogno di vendere spazi pubblicitari agli inserzionisti, né tranquillizzare comitati di genitori o moralisti benpensanti, ma vive tranquillamente dei profitti che i propri prodotti realizzano sul mercato dei DVD e dei Blue Ray. E i profitti, giuro, nascono esclusivamente dal fatto che i loro prodotti sono i migliori e i più cazzuti dell’universo (tra gli altri, "OZ", "I Soprano", "True Detective", "Game of Thrones", "Generation Kill", "True Blood" e "Boardwalk Empire").


David Simon, invece, è un signore che faceva il giornalista di cronaca nera a Baltimora, una delle città più pericolose e col più alto tasso di omicidi degli Stati Uniti. Il buon Simon, dopo essersi lasciato con la moglie, ha pensato bene di mettersi al seguito della squadra omicidi della polizia di Baltimora (1988), dopo che il detective Bill Lansley, durante una conversazione la vigilia di Natale nel 1985, sparò una battuta del tipo: “se solo qualcuno seguisse per un anno cosa succede in questo posto, ne verrebbe fuori un bel libro”… detto fatto: un anno con la Omicidi di Baltimora fatto di uscite in notturna, retate nei bordelli, appostamenti lunghi come giorni, spesi a chiacchierare con gli agenti di pattuglia, fumando sigarette senza filtro, mangiando robaccia e bevendo caffè nero come la notte. Ne è uscito un romanzo-dossier, “Homicide: A Year on the Killing Streets”, che ha cambiato la storia del giornalismo, gli è valso il prestigioso premio Edgar ed è stato definito dall’Associated Press “un classico del suo genere”.

Uno con le palle, per intenderci! Dalle esperienze raccontate in quel libro trarrà ispirazione una serie televisiva intitolata “HOMICIDE: LIFE IN THE STREET”, incentrata su una unità della sezione omicidi della polizia di Baltimora. La serie era molto bella e interessante ed è andata in onda per 7 stagioni trai il 1993 e il 1999, più un film tv uscito nel 2000. C’è anche una web-serie spin off disponibile sul sito della NBC.

Homicide” fu una serie clamorosa, vinse un’infinità di premi (tra cui quello di miglior serie drammatica per molti anni di seguito) e, per Time Magazine, costituisce una delle più belle serie di tutti i tempi.

Per la prima volta, grazie ad "Homicide", si può veramente parlare di “realismo” all’interno del format della serie tv. La fiction è puramente ed esclusivamente funzione del più crudo realismo. Mai il contrario. I personaggi vivono, crescono e muoiono NON in base ad esigenze drammaturgiche, ma perché nella vita vera tutti noi viviamo, cresciamo e, prima o poi, moriremo. Non ci sono diabolici macchinazioni criminali, né boss superpotenti, né sbirri eroici ed incorruttibili. Non si muore perché si conoscono i segreti di Fatima o per salvare il Presidente degli Stati Uniti, ma per sfiga, per inesperienza o per errore. L’omicidio non è quello Hitchcockiano: perfetto, spettacolare, macabramente intrigante, ma è quasi sempre banale, ordinario e motivato da futili ragioni: frustrazione, disperazione, rabbia…. I casi vengono risolti senza nessun particolare colpo di scena, ma perché i crimini sono spesso compiuti da persone stupide, ignoranti e senza nessuna programmazione. La vita è questa, e “Homicide” ha tentato (riuscendoci) di rappresentarla fedelmente. 

Se “Homicide” può rappresentare l’apertura del vaso di Pandora, “The Wire” ne rappresenta l’infernale contenuto.

David Simon, infatti, dopo l'ennesimo battibecco con l'NBC - si dice a causa dell’eccessivo pessimismo di cui era infarcito il suo “Homicide” - si rompe definitivamente i maroni, taglia i ponti col network con sede nel Rockefeller Center e propone un crime nerissimo alla HBO, con la quale aveva già collaborato per quel piccolo gioiellino di “The Corner”; La HBO, pur inizialmente titubante, accetta di produrre il pilot di “The Wire". Nel frattempo, Simon, non si sa bene come, convince il sindaco di Baltimora a patrocinare lo show, convincendolo che esso avrebbe potuto cambiare la pessima idea che gli americani avevano sulla città, un posticino che vanta un tasso di omicidi SETTE volte superiore alla media nazionale... Beh, non so se l’effetto promozionale sia riuscito, in compenso, David Simon e l’HBO hanno potuto produrre e mandare in onda uno spettacolo che ha cambiato per sempre la storia della televisione e della Cultura in generale.


Sì, perché “The Wire”, in senso stretto, non è un normale prodotto televisivo: non ne ha la logica, il ritmo, i tempi, la scrittura, il linguaggio, la filosofia e la morale. Qualcuno l’ha definita il più bello e il più importante prodotto drammaturgico della storia dell’umanità. Davanti persino a Balzac, a Proust e agli inventori della Tragedia dell’antica Grecia…. Altri hanno scomodato Dickens. Altri ancora hanno detto che se la maggior parte delle serie televisive si ispira a Grisham, “The Wire” non può che fare riferimento a Dostoevskij… Per il sottoscritto, ci sta tutto!!! In ogni caso, il fatto che se ne possa anche solo discutere in questi termini, dovrebbe farvi capire di che cacchio di roba stiamo parlando.

"The Wire", dicevamo, non è propriamente il vostro tipico programma TV: non è stata ideata da un classico produttore televisivo, ma da un pluripremiato giornalista d’inchiesta. Non è stata scritta da un pool di sceneggiatori, ma da quelli che – all’epoca – erano i più bravi, tosti ed apprezzati scrittori di noir e di crime fiction degli States: autori di culto come George Pelecanos, Richard Price, Dennis Lehane e da Ed Burns. Stiamo parlando di gente che, scrivendo libri, ha vinto tutto e il contrario di tutto.

Questa scelta fa sì che "The Wire" possa essere considerato come un prodotto letterario vero e proprio e non come una semplice trasposizione per il piccolo schermo. La differenza è enorme: il livello dei dialoghi, la profondità della storia, la caratterizzazione dei personaggi e, soprattutto, il ritmo sono quelli tipici dei migliori romanzi, con ben poco in comune con i concorrenti prodotti televisivi visti fino ad allora (e anche di quelli degli anni a venire). Nulla è finalizzato a mera esigenza di spettacolarizzazione o di intrattenimento.


"The Wire" non procede verticalmente (ossia tramite puntate autoconclusive), ma è un’unica, immensa e durissima storia pensata - ab origine - per svilupparsi orizzontalmente per 60 episodi. Lo stesso Simon dichiarò che "se chiedi l'attenzione di qualcuno per 60 ore, devi dargli qualcosa di buono in cambio". L'impegno è stato assolutamente mantenuto.

La storia – fin dal titolo – allude ad una detection, condotta per appostamenti, intercettazioni telefoniche e spiate di informatori. Già questo, televisivamente parlando, sembrerebbe un suicidio. Niente inseguimenti spettacolari, niente detective dall’intuito miracoloso, niente sparatorie alla John Woo, ma tanto lavoro sodo, duro, noioso e poco gratificante. Il ritmo è lento, la storia sembra avanzare a fatica e, talvolta, sembra non portare da nessuna parte… ma dopo i primi episodi, qualcosa rapisce gli spettatori e chi resiste capisce ben presto che "The Wire" non è la storia di un’indagine, ma l’affresco – curato nei minimi dettagli – di una complessa e moderna città contemporanea.
Già, perché "The Wire" è un romanzo corale in cui uguale tempo, attenzione e spazio è dedicato a tutti i sottoinsiemi che compongono una città e in cui ogni sottoinsieme è descritto e analizzato in tutte le sue componenti. Così gli sbirri – dal capo della polizia all’ultimo degli agenti scansafatiche che passa la giornata a leggere riviste porno e trangugiare ciambelle – così i delinquenti – dai vertici della piramide del crimine, ai ragazzini che smerciano la roba agli angoli dei projects…   

Ma “The Wire”, dicevamo, non è la storia di una semplice detection… già a partire dalla seconda stagione, l’anello su cui si focalizza la trama si allarga, spostandosi dai vicoli dello spaccio al porto di Baltimora, per poi infrattarsi nel putrido mondo dei sindacati, imboscarsi nei salotti del potere, dentro le aule del sistema scolastico pubblico americano, fino alle redazioni dei giornali e delle televisioni. Nell’arco delle cinque stagioni, il cerchio si allarga sempre più e il risultato è la più devastante, inquietante e veritiera rappresentazione di una metropoli moderna. Ce n’è per tutti: la retorica della politica, l’impotenza dell’amministrazione della giustizia, le disfunzioni delle istituzioni, della burocrazia e del sistema scolastico americano; e poi l’insensibilità e il cinismo dei mass media, la violenza e il lucido rigore del crimine organizzato; l’immenso indotto del traffico della droga, lo spaventoso mondo delle classi più povere e meno agiate… e poi la corruzione della polizia, l’inefficiente disorganizzazione sindacale e la spietatezza delle guerre tra le bande… Quello che ne esce è un universo popolato da centinaia di personaggi, ognuno dei quali viene trattato e descritto con una tale precisione e dignità, da far sì che il suo ricordo rimanga vivido e indelebile anche a distanza di anni dalla visione. Ci sono personaggi che non compaiono in più di una scena, con due sole linee di dialogo, dei quali tuttavia ci sembra di sapere tutto; che ci sembra di conoscerli da una vita…

"The Wire" è forse l’unico prodotto che io abbia mai visto/letto/ascoltato capace di offrire un veritiero, spiazzante e soprattutto completo affresco del mondo in cui viviamo: ci racconta che la lotta al crimine non è condotta da mega-efficientissimi laboratori scientifici, non è combattuta da investigatori infallibili e super-cool, non è guidata da poliziotti integerrimi e coraggiosi. Il corpo di polizia è invece presentato come un luogo di lavoro che deve fare i conti con salari mal pagati, budget ridotti all’osso, lotte intestine e mezzi irrisori; che deve far quadrare i conti delle statistiche; che risponde a logiche cerchiobottiste e di potere. Gli sbirri si odiano tra di loro, si fanno la guerra per un avanzamento di carriera, hanno il terrore di un nuovo cadavere, perché significa un potenziale aumento degli omicidi e un potenziale taglio al già risicato budget. Ci sono quelli che ci credono, quelli che non gliene frega un cazzo, quelli che vogliono solo una scusa per menare le mani, quelli che usano il cervello e quelli che ragionano coi piedi. Tutti devono rispondere a qualcuno e nessuno è veramente contento di quello che fa. 

Poi ci sono i criminali, per i quali non è tutto rosa e fiori: problemi di organizzazione interna, problemi famigliari, problemi con la giustizia, problemi con organizzazioni rivali. Nessuno si può fidare di nessuno. Tutti contro tutti e tutti infelici e stressati. L’intero sistema piramidale – dal vertice, giù fino alla strada – è composto da gente che sa che la vita sarà dura e probabilmente breve. "The Wire" è una delle poche serie che ha il coraggio di dirti che i cattivi, pur essendo più potenti e meglio organizzati dei buoni, se la passano altrettanto male e non conducono vite da nababbi; altro che romanticismo del delinquente; gente come Body gestisce lo spaccio con lo stesso entusiasmo con cui un impiegato delle poste si reca al lavoro. Con la differenza che per pochi dollari in più, rischia una pallottola, una coltellata o l'arresto. 


La caratterizzazione dei personaggi è talmente potente ed eccezionale che lo spettatore arriva a disperarsi per la morte di un cattivo quasi più che per la morte di un buono. Solo "SoA" mi ha fatto piangere altrettanto di fronte alla dipartita di uno stronzo.

"The Wire" racconta tutto questo prendendosela con estrema calma, senza  alcuna fretta, aprendo pian piano tutte le porte e lavorando per continuo accumulo e sovrapposizione di piani. Il rischio, dicevo, è la noia o la confusione più totale. Il premio è un capolavoro di lucidità assoluta.

E poi il lavoro svolto sul linguaggio: se c’è una serie da ascoltare in lingua originale, questa è "The Wire". Prescindendo dalla bellezza dei dialoghi, scritti da romanzieri di culto e non da semplici sceneggiatori hollywoodiani, c’è l’immenso lavoro costituito dalla resa fonetica dello slang, da parole intraducibili se non nel loro portato onomatopeico. Ci sono personaggi che parlano una lingua praticamente incomprensibile agli stessi americani, ma che allo stesso tempo suona come una sinfonia punk… Felicia “Snoop” Person, ad esempio, non parla, ma farfuglia e vomita fonemi a caso, che escono mangiati e sbiascicati come da un AK47 arrugginito…


Pensate che molti college ed Università (Harvard, la John Hopkins e la Brown) hanno inserito corsi su "The Wire" negli indirizzi di giurisprudenza e di sociologia. L’Università del Texas l’ha inserita nel programma di letteratura; Harvard, addirittura, inserì "The Wire" come materia curriculare per il loro corso sull’ “ingiustizia urbana”.

Per farvi capire di che geni stiamo parlando, e senza voler spoilerare troppo, c’è una scena in cui McNulty e Bunk risolvono un caso di omicidio ricorrendo esclusivamente ad un dialogo tra loro fatto di “fuck” e sue declinazioni. Neanche a dirlo, la sequenza ha fatto la storia ed è stata citata in mille mila altri show.

"The Wire", inoltre, parla di solitudine, di uomini e donne sole che lottano contro se stessi, contro il sistema, contro tutto e tutti e che spesso ricorrono all’alcool o alla droga per avere un anestetico alla loro squallida esistenza. McNulty – un gigantesco Dominic West, nel ruolo della vita – è un alfiere della solitudine, della vita sprecata, delle occasioni mancate e delle notti passate al bar ad adescare cafone e a vomitare bile.

  
La sigla, bellissima, è costituita sempre dalla stessa canzone, che in ogni stagione viene interpretata da un diverso artista (Tom Waits, DoMaJe, Earle, Five Blind Boys…) in un differente genere. Scusate se è poco.

Non saprei citarvi un protagonista o un personaggio più intenso, meglio caratterizzato o più importante degli altri: il cinico e idealista McNulty, il saggio e disincantato Bunk Moreland, l'integerrimo tenente Daniels, la cazzutissima agente Kima, il geniale Freamon, lo stupendo Bubbles, il temutissimo Omar Little, l’odioso Burell, il macchiavellico Carcetti, il povero Bodie, ma anche il cattivissimo Avon Barksdale, lo stilosissimo Stringer, il perfido Marlo, la supercoppia criminale Chris e Snoop, il superciccione Proposition Joe… e poi Sobotka, Colicchio, il sindaco uscente Royce e Pryzbylewski… ognuno di loro e i mille che non ho citato per semplici ragioni di spazio, sono entrati nel mio cuore e non potranno più uscirne. MAI PIU’. 






GIUDIZIO SINTETICO: Se volete, non solo vedere la più bella serie di sempre, ma capire veramente qualcosa sul mondo e sulla vita: guardate "The Wire". Mi ringrazierete. E ricordate: “No one wins. One side just loses more slowly”


VOTO: 11 e lode, senza se, e senza ma!!!


P.S. 
Mi scuso ancora con tutti per il prolungato silenzio sul blog. Spero di riuscire a riprendere la regolare attività quanto prima. Non vogliatemene...

P.P.S.
Che ne pensate di questa apertura di 24-al-secondo anche al mondo delle serie tv? Titoli da suggerire per le prossime recensioni??? Serie passate? Presenti? Future???

P.P.P.S.
Se la rece vi è piaciuta, sappiate che essa ha costituito la base per la puntata del 12 marzo di "Serial K: Le serie tv in radio", una trasmissione webradio che tratta di serie televisive e che scrivo e conduco assieme a due carissimi amici: Tommy e Giulio. I podcast delle passate puntate li potete trovare tutti su Mixcloud; le puntate le potete sentire in diretta ogni 2 settimane, il giovedì, dalle 19:00 alle 21:00 su Radio Strike; tutte le info, le comunicazioni, i commenti e le foto le trovate su FB. Vi aspettiamo.






1 commento:

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