12/12/12

IL SOSPETTO (di Thomas Vinterberg)




Il rischio, quando fai un film del genere, è di deludere un po’ tutti.
Storia, premesse e sviluppi sono già tutti lì, nel titolo.
Quando entriamo in sala sappiamo esattamente ciò a cui assisteremo: allo spegnersi delle luci, comincerà la persecuzione di un uomo innocente. Il martirio di una vittima sacrificale.
Come se non fosse già fin troppo chiaro dove il film andrà a parare, in una delle scene iniziali Lucas (il protagonista, interpretato dal bravissimo Mikkelsen) è simbolicamente impegnato in una battuta di caccia al cervo in cui la premonizione del transfert vittima/carnefice, preda/cacciatore è simbolicamente fin troppo evidente.

Dunque, con trepidazione quasi sadica, attendiamo il momento, inesorabile ed inevitabile, in cui il preannunciato dramma esploderà con tutta la sua forza; in cui il sospetto di una colpa gravissima, infamante e, soprattutto, indelebile porrà un essere umano alla gogna; in solitudine contro tutti, contro ogni logica, contro ogni evidenza.

Allora, perchè? Perchè avventurarsi in un progetto del genere? Perchè presentare al pubblico una storia con presupposti, svolgimento e persino finale annunciato? E, date tali premesse, perchè il pubblico dovrebbe andare a guardare il film?

Innanzi tutto perché la storia – per quanto scontata nel suo evolversi – è interessantissima.

Inoltre, i quesiti che essa pone sono più che mai attuali e cruciali: come sopravvivere ad un sistema in cui le accuse sono peggiori delle sentenze? in cui i sospetti valgono più delle prove? in cui il capriccio di un bambino diviene più credibile della reputazione di un uomo?
E scavando ancora più in profondità: quanto ci vuole a perdere tutto? quanto ci possiamo fidare delle persone che ci circondano? chi sono i nostri veri amici? Chi possiamo dire di conoscere intimamente e chi può dire altrettanto di noi?
Come sempre, le domande sono molto più importanti delle risposte e Vinterberg riesce a porre tutte quelle giuste.

Ne esce un film solidissimo e lucidissimo. Spietato nella sua fredda logicità.
L’autore è abile nell’evitare i tranelli retorici. Non cede al facile sentimentalismo, né eccede nel vittimismo del suo protagonista.
Vinterberg sviluppa il racconto con linearità assoluta. Per chi osserva non c’è alcuna ambiguità, alcun sospetto, alcun margine di incertezza: Lucas è assolutamente innocente. Un film americano, probabilmente, non avrebbe mai rinunciato alla spettacolarizzazione del dramma, avrebbe giocato con noi spettatori ponendoci allo stesso livello dei compaesani, degli amici, dei famigliari dello sventurato protagonista per risolvere tutto con un grande colpo di scena finale: sipario; bocca aperta; appalusi.
Un film americano non avrebbe mai rinunciato a complicare la già sfigata esistenza del protagonista con ogni sorta di fardello possibile immaginabile. Nella logica della produzione hollywoodiana, infatti, se il protagonista ha un grosso problema da risolvere, ne deve avere almeno dieci altri minori a complicargli l’esistenza. Questo perchè altrimenti noi poveri spettatori, scimmie ammaestrate con soglia di attenzione tarata sui dieci minuti, rischieremmo di annoiarci.
Ma a Vinterberg non pare affatto interessare la trovata ad effetto, il “coup de théâtre”.
I toni sono duri, ma mai eccessivi, Lucas è vittima, ma non martire, il resto del mondo è crudele, ma non sadico. Inoltre, l’invenzione di personaggi come il figlio Marcus ed il suo padrino che non rinunciano a schierarsi a favore del padre e dell’amico offrono non solo una inaspettata e riuscitissima sorpresa narrativa, ma restituiscono al tutto una dimensione di maggior realismo.



Ciò premesso, non siamo nemmeno dalle parti dello straniamento di Brecht: lo spettatore, chiaramente, empatizza con Lucas, prende le sue difese e si rivolta contro la stupidità dei rigidi educatori scandinavi, contro l’ottusità della polizia, contro il tradimento degli amici, ma l’atmosfera minimalista e comunque sobria consentono una fruizione tutto sommato razionale e non viscerale della vicenda. Come a voler sottolineare: occhio! Evitate di incorrere negli stessi errori. Usate la testa e non la pancia.

Soprattutto, il film non delude alcuna aspettativa: mette in scena un dramma umano, esistenziale e psicologico con un controllo assoluto della materia trattata, sfruttando al meglio la prova fisica di un Mikkelsen eccelso ed evitando sapientemente che il tutto si trasformi in farsa o si sbrodoli in melenso pietismo.



Il premio a Cannes per la migliore interpretazione maschile non è solo un omaggio (sempre troppo tardivo) ad un grandissimo attore e ad una grandissima carriera, ma è anche un giusto riconoscimento al valore di un film che – pur nella sua normalità stilistica e drammaturgica – risulta comunque straordinario.
La regia, infatti, abbandonati definitivamente gli sperimentalismi e gli intenti programmatici stile "Dogma 95", brilla per sobrietà e raffinatezza elevando il film al rango di “classico”.

GIUDIZIO SINTETICO: Mantiene quel che promette

VOTO: 7

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