09/12/12

LA CINQUIÈME SAISON (di Jessica Woodworth e Peter Brossens)




Cosa succederebbe se all’improvviso la natura si ribellasse? Il tema sembrerebbe poco originale e assai inflazionato nella fantascienza di serie B, ma la coppia di registi belgi muove da tale interrogativo per disegnare un originalissimo disaster movie che riflette, con tinte fiamminghe, la miseria della condizione umana.

Dunque, niente tifoni, terremoti e valanghe; nessuno tsunami e nemmeno alluvioni. La natura, semplicemente, smette di cooperare... Una pacifica astensione. Una rivolta silenziosa e discreta. Non violenta, come avrebbe apprezzato il Mahatma. Il tempo scorre ma non passa, le mucche non producono latte, la terra inaridisce, gli uccelli non tornano e i galli non cantano…

In un tranquillo paesino delle Ardenne ci si appresta a celebrare la fine dell’inverno. Si attrezzano i barbecue, ci si veste a festa, si costruiscono giganteschi pupazzi e si provano le danze. Due giovani adolescenti vivono il loro innamoramento. Il “vecchione”, simulacro del freddo ormai prossimo a cessare, è issato su covoni di paglia per essere immolato… ma le fiamme non bruciano, il fuoco non divampa e il vecchione – intatto ed illeso – rimane ad osservare la delusione sui volti degli astanti. La festa finisce ed il ritorno a casa è meno allegro del previsto. Poi… arriva la primavera, ma con essa non fanno ritorno le api, non fioriscono i campi, non germogliano i semi.



L’incredulità iniziale lascia presto spazio allo sconforto e alla rabbia… poi, segue una silenziosa riorganizzazione di classe: gli abbienti non contano più nulla, mentre i contadini che avevano messo via qualche cibaria e un po’ di benzina per i loro attrezzi acquistano potere contrattuale.
Le difficoltà fanno ben presto crollare le convenzioni relazionali; i rapporti sociali si rivelano ben più fragili del previsto: ognuno pensa alla propria sopravvivenza a scapito di quella degli altri. Il contratto sociale si scioglie e la comunità cede alla lotta individuale.



Il film è costruito in capitoli che si susseguono come le stagioni: alla primavera segue l’estate, arida di vita e di frutti. Ci si nutre di insetti e si contrabbanda il poco col nulla. Alla violenza si oppongono pochi intrepidi (che piantano fiori di plastica per non voler rinunciare alla bellezza), ma la neve ricomincia a cadere.

Con l’autunno la disperazione dilaga. L’amore adolescenziale finisce con una lotta nel fango e la giovane ragazza vende il suo corpo per un po’ di sapone e qualche avanzo di cibo. È lotta senza quartiere tra gli abitanti del piccolo villaggio.



L’inverno segna la fine di ogni speranza e, con essa, di ogni cortesia. La società regredisce a puro primitivismo. È un medioevo dell’anima e dello spirito. I pupazzi diventano gli idoli di un nuovo culto barbarico che brama vittime sacrificali e tributi di carne. Ovviamente, il prezzo della stoltezza umana verrà pagato dagli ultimi innocenti: un immigrato ex filosofo (chiaro simbolo della ragione che si oppone vanamente alla superstizione, ma anche l’estraneo che diventa il più facile capro espiatorio) verrà immolato sul rogo ed il suo figlio disabile (che con due ali di cartapesta sulla schiena, rappresenta la purezza dell’angelo caduto in terra) verrà gettato al suolo a strisciare come un verme. Come sempre, aveva ragione Celine: “quando l’odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità si convince presto, i motivi arrivano da soli”.
L’osceno sacrificio, ovviamente, non risolverà nulla. Solo Thomas, il giovane adolescente innamorato, si caricherà il bimbo sulle spalle per andare incontro all’ignoto.



La quinta stagione è solo la visione di un branco di struzzi che si aggira in una terra desolata.

La sinossi non può minimamente restituire la struggente bellezza del film. I due registi belgi (marito e moglie) portano a compimento la loro personalissima ed intensa riflessione sul rapporto uomo-natura (avviata nella steppa siberiana con “Khadak” e proseguita tra le montagne andine con “Altiplano”).

Il risultato della loro ultima fatica è uno dei film più belli, emozionanti ed intensi degli ultimi anni. Ogni singolo fotogramma è una suggestione fiamminga; è una sinfonia color cenere che affonda a piene mani tra le visioni di Bosch, le tinte di Bruegel e le luci di Vermeer… le musiche degli Eyeless in Gaza non costituiscono una mera colonna sonora, ma sublimano la potente drammaticità delle immagini mettendo letteralmente i brividi.

La messa in scena incanta ed i sensi restano storditi. Al termine, si sente freddo nell’anima e nel corpo.



Più che una visione, il film costituisce un’autentica esperienza alla quale ognuno reagisce a suo modo: chi la ricorderà per sempre, chi ne farà tesoro, chi la rimuoverà o la rinnegherà con forza perché troppo intensa… troppo dolorosa.

Quello che più colpisce è la piena consapevolezza e maturità della coppia di registi nella gestione narrativa di questo piccolo-grande gioiello: il film è ingannevole e mendace… parte con toni grotteschi, buffi, quasi comici e, senza quasi accorgercene, dalla leggerezza piombiamo nel dramma più nero.
Sorridiamo, ebeti ed ignari, di fronte alla scena dell’uomo che parla col proprio gallo. La stessa scena, un’ora più tardi, ci catapulta nell’inferno dell’anima.
Il crescendo apocalittico è gestito con rigore chirurgico. Basterebbe un lievissimo calo di tensione, una scena sbagliata, una battuta di troppo per spezzare l’equilibrio e far precipitare il tutto a livello di farsa. Invece, il film non sbaglia un colpo; attraversa il baratro danzando sul filo senza mai sbandare un istante ed il finale – meraviglioso e sublime – colpisce come un pugno nello stomaco.



La Vecchia Europa ha ancora qualcosa da dire: e lo dice benissimo. Questo film (come quelli di Refn, Dumont, Balabanov, Meadows) è la testimonianza che con buone idee è possibile fare grande cinema (anzi Arte) anche con pochi mezzi.

Gravissimo che nessuno si sia accorto di tale gioiello (stroncato, con poche encomiabili eccezioni, dalla maggioranza delle recensioni); intollerabile che una giuria di registi ed attori abbia potuto negargli la soddisfazione anche del minimo riconoscimento: il premio per la miglior fotografia a “È stato il figlio”, sotto questo punto di vista, testimonia l’avvento ormai prossimo della stagione degli struzzi.

Giudizio sintetico: CA-PO-LA-VO-RO!!!

Voto: 8 ½





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