09/12/12

THE GREY (di Joe Carnahan)





Beh! Tanta, tanta, tanta roba! Il film di Carnahan è un piccolo gioiello: il trailer lo presenta come il più classico dei survival movie di matrice spettacolare e natura fracassona, ma fin dalle prime battute il film tradisce una inaspettata vocazione lirica ed autoriale che ne innalza il livello ben oltre le aspettative ed i canoni del genere.


Tecnicamente è un vero capolavoro: i movimenti di macchina sono fluidi e liberi e contribuiscono in modo determinante a riflettere il flusso di coscienza che genera le paure e le ossessioni dei protagonisti. In certi momenti sembra il miglior Malick (e scusatemi se è poco).

Gli effetti speciali, pur ridotti all’osso, restituiscono sequenze magistrali e veramente memorabili: da questo punto di vista l’incidente aereo è tremendamente efficace e magnificamente realizzato. La scelta minimalista del regista non toglie assolutamente spettacolarità e restituisce invece un senso di immedesimazione e realismo che talvolta è capace di mettere i brividi. Gli attacchi dei lupi sono terrificanti. Le fiere non vengono mai percepite nella loro interezza: dettagli di canini che penetrano le carni; artigli che lacerano; i muscoli dei dorsali che gonfiano il vello. Il punto di vista è talmente ravvicinato che sembra quasi una soggettiva. Tutto ciò consente a Carnahan di provocare un effetto fortemente immedesimante e claustrofobico pur operando in un ambiente aperto e spazioso come l’Alaska.


Lo stesso dicasi per l’uso della luce, sempre troppa o troppo poca come a voler continuamente sottolineare la nostra alienità alla natura…

La storia ha per protagonista John Ottway (interpretato da un Liam Neeson in gran spolvero), cacciatore al soldo delle compagnie petrolifere con l’incarico di sparare e uccidere ogni possibile minaccia (lupi, coyote, orsi) alla vita e alla salute del personale impiegato nei rilievi per le estrazioni in una desolata stazione del Nord America.
Il mio lavoro è proteggere gli uomini dai pericoli che non possono vedere” recita la tenebrosa voce off di Ottway caricando immediatamente il film di fortissimi significati esistenziali e simbolici.



Eccezionale anche il supporting cast; in particolare Frank Grillo regala una interpretazione titanica e un personaggio insolitamente sfaccettato.

La vita di John è grigia e solitaria. Ottway odia il proprio lavoro. Odia le Compagnie per cui uccide. Odia la propria vita perché ha perso l’unica fonte di gioia: la sua donna è morta di un male incurabile.
Ottway ricorda il volto dell’amata – in un bellissimo flashback che ritornerà più e più volte nel corso del film – e medita il suicidio.
Mentre è in ginocchio con in bocca le canne del fucile, sopraggiunge un ululato ed il ricordo di una vecchia poesia. Non è ancora venuto il momento della resa.

Quello di Ottway è un mondo violento, popolato da uomini incarogniti, padroni senza scrupoli e compagni disillusi; un’umanità sconfitta e perduta; un mondo fisico ed esistenziale minacciato costantemente dal buio dell’anima e da animali feroci.

La missione in Alaska è giunta al termine e Ottway, sopravvissuto al proprio intento suicida, si imbarca assieme ai suoi compagni di sventura sull’aereo della Compagnia Petrolifera per fare ritorno a casa… ma quel volo non raggiungerà mai la propria destinazione. La tempesta di neve, infatti, provoca un guasto e l’aereo precipita violentemente al suolo.

Ottway riprende conoscenza, assieme a pochi superstiti, risvegliandosi nel mezzo di una terra desolata e gelida, senza armi e minacciato dalle fiere e dagli elementi. Le ragioni per morire dovranno confrontarsi con quelle per sopravvivere: “Ancora una volta in lotta. Nell’ultima battaglia che conti di cui ho mai saputo. Vivere e morire in questo giorno.” Questo il testo della poesia che gli ha impedito di premere il grilletto. “Vivere e morire in questo giorno”. Questo il movente del suo tentativo di sopravvivere e dare un senso alla propria esistenza.













Il freddo, la fame, i lupi, il buio… il film evoca paure ancestrali e si nutre degli incubi che costrinsero i nostri avi ad abbandonare le nere spelonche per edificare ben più solide e confortevoli capanne.
Ogni minaccia assume significati, prima ancora che simbolici, fortemente evocativi di paure ataviche e primordiali: così, il buio è avvolgente e terrificante; i lupi sono ombre… occhi fosforescenti che minacciano e scrutano… denti aguzzi che tagliano e azzannano… ululati e guaiti che ghiacciano il sangue nelle vene. Il lupo non è un semplice animale. È una nemesi, è un fantasma, è lo spettro di tutte le più profonde paure, ma anche lo specchio in cui si riflette e si riconosce un’anima in pena e un’umanità priva di fede e speranza.

Come nella migliore tradizione, l’uomo, spogliato dalle sovrastrutture sociali della civiltà, regredisce immediatamente allo stato animale: la paura diviene superstizione, lo spirito di sopravvivenza si confonde con il sopruso, il forte se la prende col debole e salta completamente il contratto sociale. Ma la sopravvivenza impone regole. E così il branco di uomini elegge rapidamente il proprio leader ed il leader indica la direzione della fuga. La strada della salvezza. Nel mezzo occorre trovare cibo, fuoco, cure e protezione. Calano le tenebre, sale il freddo e con esso arrivano i lupi.



Uomini e lupi. Da sempre così nemici e da sempre così simili.
Il lupo è l’unico animale capace di uccidere per vendetta, recita ad un certo punto un personaggio. Proprio come l’uomo. Proprio come Ottway, il lupo uccide per cacciare, per difendere la propria tana e per vendicarsi.

Ottway è il maschio alpha ed il suo branco ha bisogno della sua esperienza per sopravvivere. Allo stesso modo, Ottway ha bisogno del proprio branco per trovare un senso alla propria vita. Per ritrovare il coraggio perduto sul letto dell’amata morente. “Non devi aver paura” gli sussurra la ragazza, ma Ottway stava per soccombere alla paura, stava cedendo allo sconforto, stava per premere il grilletto…
Ora però Ottway non ha più paura. È terrorizzato, ma la paura è scomparsa. Ora Ottway è “di nuovo in lotta per l’ultima battaglia che ha un senso combattere”.
Forse c’è una ragione per la quale è sopravvissuto ad un disastro aereo.
Forse Dio ha un piano per lui.
Forse c’è un senso per tutto il dolore, per tutto il male, per tutta l’angoscia…

La morte che sopraggiunge implacabile sui vari membri del gruppo è in qualche modo appagante. Essa sopraggiunge al momento giusto. Quando il conflitto si è placato. Quando la rabbia è scemata. Qualcuno ricorda la figlia. Qualcuno evoca una sorella. Una donna o un’amante. In qualche modo la morte colpisce chi smette di lottare. Chi fa pace coi propri fantasmi.
Ma Ottway non può ancora morire. È ancora in lotta ed ancora in cerca del proprio senso nel mondo.
In un momento di puro sconforto, rimasto solo e braccato, invoca l’intervento divino… brama un segno che restituisca un senso alla propria vita. Non è tanto questione di salvarsi la pelle, quanto di sapere e di poter credere: “ne ho bisogno adesso, non nell’aldilà”… ma il segno non arriva e Ottway, bestemmiando contro il cielo bianchissimo e immobile, conviene che dovrà continuare fare per conto proprio.

Bellissima la metafora del viaggio di e verso la sopravvivenza che conduce l’eroe dritto nella tana del lupo… e non tanto perché l’eroe è cieco e spaesato, quanto piuttosto perché la salvezza è la lotta che vale la pena di combattere.



Rinunciare al suicidio; sopravvivere ad uno schianto a 600 km all’ora; affrontare freddo, fame, lupi, tenebre. Tutto ciò per poter morire alla luce del sole, vicino ad un placido lago. Tutto ciò per poter morire affrontando un nemico più forte. Senza più paura.
Vivere e morire in questo giorno!



GIUDIZO SINTETICO: Solido, emozionante, cattivo e cinico. Grandissima regia e bellissimo finale.

VOTO: 8





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