09/12/12

REALITY (di Matteo Garrone)



Reality” è una fiaba amara sull’illusione della fede e della speranza.

Luciano è un napoletano in gamba: è un buon padre di famiglia ed un marito affettuoso; ha amici che gli vogliono bene, una casa modesta, ma dignitosa e il rispetto del proprio quartiere. Gestisce una pescheria e, saltuariamente, organizza anche piccole truffe; il suo è però un traffico modesto, da “vecchia commedia all’italiana” con tanto di vecchiette che provano a raggirare gli ingenui truffatori (sembra “Tototruffa” o “I soliti ignoti” e non certamente “Scarface” o “Gomorra” da cui, anche con questa piccola scelta, l’autore dichiara di voler prendere effettiva distanza). Luciano insomma non ha troppo, ma sicuramente ha abbastanza, anche se lui brama le luci della ribalta e, in attesa del successo, si maschera alle feste per il divertimento dei parenti.
Un provino improvvisato al casting del Grande Fratello condurrà Luciano dentro un vortice di aspettative ed ossessioni che travolgeranno irrimediabilmente la sua vita facendolo sprofondare nell’ossessione e nella pazzia.


Garrone si conferma grandioso regista di immagini, piuttosto che di storie; la struttura narrativa del film, infatti, è assai misera cosa rispetto alle scelte registiche, alle soluzioni visive, ai giochi di luce, alle inquadrature ed ai cromatismi.

Il film apre con un grandioso piano sequenza aereo che dalle cime del Vesuvio scende in picchiata verso le strade trafficate di Napoli; qui, tra palazzine abusive, la macchina da presa segue l’incedere di una carrozza trainata da cavalli bianchi. Sembra l’avvio di una fiaba. Due giovani sposi vestiti a festa scendono dal cocchio e si apprestano a celebrare il giorno più bello della loro vita. Il palazzo delle fiabe, tuttavia, si rivela un gigantesco albergo con camerieri in livrea, palloncini, arredi barocchi e canzonette neomelodiche che rendono pieno omaggio al più bieco cattivo gusto. È il sogno dell’italiano cafone cresciuto a pane e “biutiful” che si realizza dando ennesima conferma di quel tradimento culturale profetizzato quarant’anni fa da Pasolini e pienamente rivelatosi ben peggiore delle più nefaste aspettative.

La festa è un’orgia di colori, di abiti satinati e traslucidi, di camice sbottonate e attillate, di ciccioni sudati che scimmiottano i loro idoli mediatici ed inneggiano il loro nuovo eroe popolare: Enzo, che era uno sfigato come loro prima di essere “quasi arrivato in fondo” al Grande Fratello. Enzo ce l’ha fatta! l’apparizione in tv lo ha reso famoso e, grazie a cotanta impresa, ha realizzato il sogno di tutti: vivere di rendita prestando la propria presenza nella giostra delle comparsate alle feste e delle serate in discoteca. Luciano guarda incantato il proprio beniamino mentre, ad un matrimonio celebrato nel giardino attiguo a quello appena festeggiato, recita come un mantra l’ennesimo identico copione di battute, giurando che quella di turno “è la sposa più bella del mondo” e inneggiando gli astanti al grido “never give up”. Tuttavia, il circo ha cui ha appena assistito non solo non apre gli occhi di Luciano, ma lo abbaglia con le false lusinghe e promesse dello show business.
Luciano vede il trucco, assiste al manifestarsi della menzogna, ma rimane totalmente incantato dal fascino del successo: esisti perché appari.
Ribadisco: il concetto, per quanto sacrosanto, non appare particolarmente originale, ma la forza del film di Garrone consiste soprattutto nel modo di raccontare, nel sapiente uso di immagini che, da sole, celebrano e trascendono ogni banale analisi antropologica, offrendoci uno spaccato al tempo stesso grottesco e drammaticamente reale del mondo che ci circonda.



Dopo le pacchianerie e gli sfarzi della festa, la scena si sposta nei vicoli seicenteschi della Napoli popolare, tra palazzi fatiscenti, cortili sgangherati ed abitazioni misere e polverose. La macchina da presa ci accompagna dentro l’appartamento di Luciano dove il kitsch sfarzoso della festa cede il posto alla modestia degli arredi. Nell’intimità delle proprie camerette le donne si sfilano gli abiti attillati e indossano vecchie vestaglie lise; gli uomini, finalmente in canottiera, addentano angurie e si sbracano davanti alla tv. Il tutto è raccontato con una carrellata di piani sequenza circolari che sembrano voler abbracciare tutto il reale in un valzer che smaschera la finzione della scena precedente. Credo che sia la più bella scena del film ed uno dei momenti di cinema più alti degli ultimi anni. Mi è tornato in mente “Le relazioni pericolose” che apre con la toeletta di Glen Close e John Malkovich e termina con lei in lacrime, distrutta nel corpo e nello spirito, intenta a struccarsi davanti allo specchio. Semplicemente sublime.

Garrone ha dichiarato di volersi discostare da “Gomorra” e di voler piuttosto utilizzare il registro della commedia.
Ma un autore, nonostante le dichiarazioni d’intento, difficilmente può rinnegare se stesso e, in questo senso, “Reality” è in coerente linea di continuità con tutto il cinema del regista romano.
Da un lato, infatti, prosegue la carrellata di personaggi deboli e vittime delle lusinghe e dei soprusi del mondo che li circonda (in tutti i film di Garrone c’è un fortissimo binomio vittima/carnefice che conduce i suoi anti-eroi a subire le tragiche conseguenze di un plagio (“L’imbalsamatore”), a cadere nelle spirali dell’anoressia (“Primo amore”) a subire le logiche della camorra (“Gomorra”) e a cedere alle false promesse dello show business (“Reality”).
Realtà e finzione, in tutto il cinema di Garrone, si fondono e si confondono sempre a danno di chi non ha la forza o la volontà di bastarsi: il bisogno d’amore, di identità, di successo conduce al martirio, al sopruso o alla pazzia.
Dall’altro, nonostante le dichiarazioni di intenti, “Reality” risulta forse il film più fortemente drammatico del regista, proprio perché la malattia che colpisce Luciano è la stessa che potrebbe colpire chiunque di noi e dalla quale non pare esservi rimedio o anestetico di sorta. Il suo male è quello della mediocrità, dell’anonimato che, nella società dei tronisti e dei quasi famosi, è una sorta di condanna alla non esistenza.
Della commedia, del resto, residuano forse il tono ed alcuni siparietti, ma non certo la struttura che non procede affatto verso un finale lieto o, quantomeno, accomodante.



Garrone è regista raffinato e modesto: non esprime giudizi morali, ma si limita ad interrogarsi e ad interrogare il mondo che di volta in volta decide di raccontare.
Reality” non pare una condanna diretta al format televisivo, del quale non rimane nemmeno il riferimento al tipico linguaggio visivo (Garrone infatti alterna lunghi piani sequenza e riprese a spalla di stampo reportagistico che mal si conciliano con le telecamere fisse presenti nella casa del Grande Fratello).
La forza del film è nell’alternanza dei piani linguistici, nella sequenza delle immagini, delle location che, più della pazzia di Luciano, descrivono con forza e radicalità il vuoto del contemporaneo e il disperato bisogno di credere in qualcosa.
I piani sequenza restituiscono il punto di vista dell’autore che osserva il mondo in cui si muovono incerti i propri personaggi. La macchina da presa a spalla, invece, bracca Luciano e asseconda il suo punto di vista delirante e fuori fuoco.

C’è chi ha visto in “Reality” la sconfitta dell’uomo moderno di fronte alla società dello spettacolo; il film è stato interpretato come un ennesimo capitolo della secolare contrapposizione essere/avere: esistenza in quanto apparizione. Siamo perché e solo perché possiamo essere visti in tv. Tutto sicuramente vero e tutto sicuramente presente nel film di Garrone.

Tuttavia, è mia personalissima impressione che il tema sia un altro: non sono i format televisivi i reali colpevoli della nostra pazzia e della nostra miseria culturale ed intellettuale. Essi costituiscono piuttosto un effetto del nostro spaesamento, nonché un anestetico al vuoto esistenziale che ci circonda e che ci ha sempre circondato. Se non fosse il Grande Fratello, sarebbe lo stadio, la religione, la moda. Al centro, sta il vuoto dell’uomo ed il suo disperato bisogno di colmarlo.

Bellissima la scelta di alternare location storiche e storicizzate ai più comuni e terribili non-luoghi della nostra quotidianità: così corti seicentesche, mercati e abitazioni popolari si alternano a paurosi alberghi labirinto, centri commerciali e acqua-park con giganteschi scivoli di plastica; la piazza del Vaticano si contrappone, con una continuità disarmante e allarmante alla casa di vetro del G.F..



Ecco allora che il tema del film sembra proprio essere il bisogno umano di colmare il proprio vuoto esistenziale; l’urgenza di evadere dalla quotidiana mediocrità per aspirare alla pur vana promessa di un qualche riscatto sociale. Certo, la salvezza eterna non può essere messa sullo stesso piano della celebrità televisiva. Ma, in fondo in fondo, la fede non agisce allo stesso modo? Responsabilizza con la promessa di un futuro migliore. Affranca gli ultimi e premia le loro sofferenze. Risponde alla primaria esigenza di ottenere risposte. Ecco allora che Luciano attua la sua laica conversione. Convinto che emissari del G.F. lo spiino per sondarne le qualità morali rinuncia all’attività truffaldina, regala i propri beni ai mendicanti, aiuta i più sfortunati in una personale via crucis che porterà la propria ossessione sino al martirio. Agli occhi di Luciano i pazzi sono tutti gli altri che non credono nella sua futura chiamata, che non vedono i segni, che non credono alla futura redenzione. Se poi ci si mettono anche i grilli (parlanti)…
Assolutamente indicativo, al riguardo, è il siparietto da teatro dell’assurdo tra Luciano e suo cugino impegnati in un divertente quanto tragico gioco di incomprensioni nel quale l’occhio di dio si confonde con quello del più orwelliano dei reality.
La critica non pare però rivolta al format televisivo (né, a maggior ragione, alla fede religiosa visti sempre come effetti e mai come cause): al centro dell’indagine del regista romano rimane, come detto, l’uomo, gravato eternamente dal vuoto insostenibile della propria vita e dall’assolta incapacità di accettare la propria condizione. Che l’ammissione alla casa del Grande Fratello abbia sostituito l’aspirazione ad entrare nel regno dei cieli costituisce semplicemente un fattore quantitativo che testimonia la bassezza raggiunta dallo spirito dei nostri tempi.



Il film non è del tutto esente da lievi difetti; soprattutto nella seconda parte appare incerto e soprattutto incapace di decidere fino in fondo da che parte stare: così, commedia, farsa, tragedia e neorealismo si fondono e confondono senza mai armonizzarsi appieno.
Troppo eccessivo per essere realistico, ma non abbastanza per essere realmente grottesco: quando il film cerca di essere propriamente narrativo esso mostra i propri limiti e si perde nell’individualismo di Luciano invece che diventare specchio di un’intera generazione.
Certo, Garrone di mestiere fa il regista e non lo scrittore, ma, a questo punto della sua carriera, un maggiore coraggio verso l’abbandono definitivo della zavorra del racconto sancirebbe forse la completa consacrazione dell’ultimo Highlander del grande cinema italiano e dell’unico autore degno di confrontarsi e capace di non sfigurare su palcoscenici internazionali.

Il finale è la risata amara e pazza di un uomo solo che ha perso tutto per raggiungere l’agognato paese delle meraviglie. Luciano, novello Alice, varca lo specchio e, anche senza l’aiuto del bianconiglio, entra di soppiatto nel regno di luce della vuota celebrità. Nessuno lo nota (forse perché essendo un imbucato è ancora invisibile?). Alla fine si accomoda su una sdraio al bordo di una piscina illuminata al neon. La casa del grande fratello, mano a mano che la macchina da presa si allontana e si innalza verso il cielo, sembra sempre più una vasca dei pesci in cui nuotano piccoli esseri dalla memoria corta. Fuori tutto è buio e immobile come la ragione che pare essersi spenta.

Grandissime prove attoriali e, su tutti, un Aniello Arena in stato di grazia.

GIUDIZIO SINTETICO: quasi capolavoro

VOTO: 7½

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