09/12/12

“PARADISE: FAITH” di Ulrich Seidl




Secondo capitolo della trilogia avviata con “Paradise: Love” (presentata a Cannes quest’estate).

Molto semplicemente, il più bel film della 69 Mostra del Cinema di Venezia (anche se “bel film” suona assai semplicistico e riduttivo: siamo di fronte ad un capolavoro in senso drammaturgico, attoriale, fotografico, filosofico, etico, esistenziale, politico e religioso).

Paradise: Faith” è la cronaca impietosa (termine assolutamente non casuale) della vita di una donna, Anna Maria, e della sua atroce dipendenza: la religione.

La fede di Anna Maria, infatti, è espressione di puro fanatismo e folle idolatria. La religione non costituisce per la donna un sistema di orientamento del proprio pensiero, né una fonte di spiegazione del mondo (per quanto nascosta dietro l’intellegibile disegno divino).
Fede e religione costituiscono viceversa una reazione estrema al male e al dolore esistenziale.
Non sappiamo cosa abbia afflitto la non più giovane protagonista del racconto, ma certamente è qualcosa di terribile che l’ha radicalmente sconvolta e trasformata (il marito, un mussulmano in carrozzella, ci fa sapere che – prima – non era così).


Il film di Seidl alterna lunghissime scene di vita privata (canti religiosi alla pianola elettrica, pulizie domestiche) a furibonde auto-afflizioni (frustate e auto-lacerazioni) che seguono a sporadiche incursioni esterne per missioni di folle proselitismo (la donna, accompagnandosi ad una statua della madonna di mezzo metro, si aggira per il quartiere tentando di convertire i propri sventurati vicini).
Tutto ciò, avviene di fronte ad una macchina da presa immobile ed impassibile che registra – come un dio distratto ed indifferente – la follia della donna.
La forza delle immagini è tale che il film reggerebbe allo stesso modo anche se fosse completamente privo di dialoghi: ogni inquadratura, ogni fotogramma è talmente carico di significati e segni che è sufficiente seguire il loro flusso per capire ogni sfumatura, ogni aspetto, ogni più piccolo dettaglio che Seidl vuole raccontarci.

                   
 Il regista adotta un linguaggio visivamente distaccato e neutrale; non giudica e non esprime opinioni (almeno da un punto di vista prettamente linguistico): nessun ricorso al grandangolo, nessuna inclinazione dei fuochi o dei piani prospettici, nessuna deformazione ottica; lo sguardo è orizzontale e fermo, il montaggio è praticamente assente (salvo nei passaggi da un blocco narrativo all’altro) e la visione è fortemente influenzata dal linguaggio scientifico (anche se ogni inquadratura è fortemente studiata e risponde a forti esigenze formali).
Seidl preferisce affidare alle carte da parati, alle immagini sacre, ai crocifissi, alle tappezzerie, agli utensili ed agli arredi il compito di svelarci l’humus in cui ha potuto germinare tale fanatismo.



La donna è una piccola borghese della periferia austriaca che vive rinchiusa dentro una prigione casalinga popolata da (pochi) oggetti brutti. Fuori il mondo sta cambiando: i suoi vicini sono per lo più stranieri e sbandati o piccoli borghesi come lei in cerca di un qualunque antidoto ai mali del mondo.
L’ossessione per la pulizia tradisce il suo disperato bisogno di ordine e di senso. Pulire fuori per sentirsi puliti dentro.

Seguendo Anna Maria nel suo folle proselitismo, veniamo condotti dentro le case dei suoi vicini, dei suoi dirimpettai: è l’Austria dei nuovi immigrati, dei piccoli borghesi impauriti, dei poveracci e delle puttane. Ovviamente, potremmo benissimo essere in Kansas, nelle Ardenne, in Siberia o nella grigia Padania… le periferie del mondo stanno trasformandosi in terreno fertile per ogni fanatismo religioso, razzismo, intransigenza, radicalismo politico.

La religione, di fronte al proprio vuoto esistenziale e culturale, appare alla donna come unica – fanatica – forma di aggregazione sociale (i canti col gruppo in salotto)... ma, si ribadisce, la fede (che non viene minimamente valutata da un punto di vista dogmatico o teologico) è criticata non in quanto vocazione spirituale, bensì come strumento di anestesia del dolore: se non fosse stato l’integralismo religioso sarebbe stato l’estremismo politico, la bottiglia o la violenza allo stadio… non c’è nulla di veramente spirituale in Anna Maria e questo costituisce il suo personale inferno quotidiano.



Seidl non è minimamente interessato al passato di Anna Maria: chi era? come era la sua vita coniugale? cosa le è successo e perché il marito se ne è andato? Sono tutte domande che rimangono senza risposta (o, meglio, sono domande che il regista nemmeno si pone).
Così, i canti religiosi, gli incontri col gruppo di preghiera, le pulizie domestiche, le incursioni esterne a caccia di vicini da convertire e le frustate autopunitive costituiscono nulla più che un vuoto rituale teso a impedire al dolore di riemergere: ed il dolore di Anna Maria (la cui origine resta ignota) è tanto più forte delle lacerazioni che si autoinfligge e delle umiliazioni che si procura.

Il ritorno – inaspettato – del marito paralitico e mussulmano incrina completamente il mondo di Anna Maria e svela la fragilità e la vacuità del suo fanatismo.

L’uomo rappresenta il ritorno ad una vita “normale” fatta di scambi emotivi, confidenze, effusioni, sentimenti, litigi. Seidl non cade nell’errore di preferire la visione religiosa del marito a quella della donna. L’uomo è mussulmano, ma il suo antagonismo al cattolicesimo della moglie non ha nulla di religioso né di dogmatico o spirituale. È la semplice reazione di un marito tradito dalla moglie (questo il senso della criticata – ma in realtà importantissima – scena di sesso col crocefisso).


Il vuoto estremismo di Anna Maria non può reggere alla prova della normalità.
La donna, pur in grado di umiliarsi, di lacerarsi la carne, di vagare per il mondo blaterando folli precetti, di passare intere giornate a pregare e cantare, è in realtà incapace del benché minimo alito di pietà cristiana: il marito viene regolarmente umiliato, vessato, lasciato a strisciare per terra; allo stesso modo, il gatto della vicina viene rinchiuso in garage e alla puttana viene negato un semplice abbraccio. Lo sputo finale di Anna Maria al cristo crocefisso non è un atto di blasfemia ma il terrificante riconoscimento del proprio personale fallimento esistenziale. Per un brevissimo attimo Anna Maria riacquista lucidità e, come il tossico che butta via la pera, si scaglia contro la fonte del proprio sollievo e del proprio supplizio…




La lucidità, tuttavia, dura solo un attimo ed Anna Maria ricomincia a sorridere estatica e vuota al suo dio…

GIUDIZIO SINTETICO: Andatelo assolutamente a vedere. CAPOLAVORO!

VOTO: 8+








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