08/01/13

LAWLESS (di John Hillcoat)


 
Ok, Tom Hardy nel film non ha più di due espressioni e mastica parole e grugniti come fossero prese di tabacco (obbligatoria la visione in lingua originale), ma ha indubbiamente il physique du role e riesce ad appassionare ad ogni impercettibile movimento di sopracciglia. Siamo al puro minimalismo espressivo: il suo personaggio è praticamente muto (e, quando parla, biascica fonemi a caso), ha una flemma che ricorda la deriva dei continenti e pare concedersi alla splendida Jessica Chastain più per la fatica di evitarla che per il piacere della sua bellezza. Roba che il Clint Eastwood degli spaghetti western, al confronto, sembra Jackie Chan… Titanico!

Shia LaBeouf, per chi scrive, rimane un volto insignificante ed un prezzolato di Hollywood, ma gli americani, si sa, sono professionisti seri e, di riffa o di raffa, porta comunque a casa la pagnotta.

Jason Clarke, poveretto, non lo conosce quasi nessuno e i trailer italiani non si prendono nemmeno la briga di citarlo nel cast (stellare); peccato, perché è un attore solido e capace (vedi il sottovalutato “The Chicago code”) calato nei panni di un personaggio che sembra cucitogli addosso: un reduce di guerra con seri problemi di alcolismo e sempre pronto alla lotta.

Sono rispettivamente Forrest, Jack ed Howard Bondurant. I tre leggendari fratelli Bondurant di Franklin, la “contea più fradicia del mondo”.


Siamo in Virginia, Stati Uniti orientali, terra di Presidenti e di moonshiners (distillatori di whisky clandestino); gli anni, ovviamente, sono quelli del proibizionismo e nella contea di Franklin il mito dei Bondurant aleggia più forte che mai. La leggenda li vuole indistruttibili, capaci di sopravvivere a pestilenze e guerre mondiali; per qualcuno sono addirittura immortali ed il rispetto di cui godono non ha pari nella regione.
La legge li teme e preferisce farsi corrompere piuttosto che affrontarli; la concorrenza li conosce e li rispetta: nessuno desidera sfidarli, nemmeno un duro come Floyd Banner (Gary Oldman) vuole correre il rischio di inimicarseli… eppure è uno che si presenta crivellando a colpi di mitra, in pieno giorno e a volto scoperto, una pattuglia di poliziotti.
Dopo la strepitosa performance ne “La talpa”, Gary Oldman torna a vestire i panni di un personaggio di contorno e “sopra le righe” che tuttavia, probabilmente anche perché mortificato nel minutaggio, risulta non eccessivamente caricaturale.



Floyd Banner è il duro di Chicago, violentissimo e senza scrupoli, ma quando scopre che uno dei suoi sta per fare secco il giovane ed ambizioso Jack Bondurant, interviene uccidendo il compare, salvando il ragazzo e diventando suo socio in affari.
È la definitiva consacrazione del mito. Già, il mito! perché nel caso non lo si fosse ancora capito è di questo che stiamo parlando. Hillcoat, tuttavia, si approccia alla mitologia americana (terra per lui straniera essendo australiano) con curiosità e rispetto: il suo approccio non è celebrativo né revisionista; non riduce la realtà in cronaca, ma nemmeno la trasforma in poema. Ma ci arriveremo…

Prima, la storia: nella “fradicia” contea di Franklin le leggi sul proibizionismo non riscuotono il rispetto auspicato dal Governo Federale: metà della popolazione distilla whisky clandestinamente per rivenderlo sottobanco all’altra metà. Sceriffi e poliziotti, dietro laute mance, chiudono un occhio e ci bevono sopra.
Tutto fila più o meno liscio finché il feroce e spietato Charlie Rakes, il vice del nuovo Procuratore Distrettuale, cavalca la scusa del proibizionismo per imporre il monopolio dei suoi protetti sul commercio del distillato clandestino.
Rakes (interpretato da un Guy Pierce all’apice di una carriera costruita su villain crudeli ed insopportabilmente stronzi) è infatti corrottissimo e sul libro paga di gangster che non hanno più alcuna intenzione di spartire la torta con i piccoli produttori di Franklin.
Il vice procuratore sbarca nella contea come un alieno impomatato ed incravattato che fisicamente, prima ancora che ideologicamente, esprime tutta la sua distanza ed il suo disprezzo per un mondo che sottovaluta e di cui ignora valori e gerarchie. Rakes (“alle spalle un’infanzia igienicamente perfetta”) è il volto lindo e demoniaco del progresso e della civiltà opposto al mondo pur selvaggio, ma ancora orgoglioso della tradizione rurale. La sua visione, e quindi la sua comprensione dei “bifolchi” di Franklin rimane come imbrigliata tra il gel della sua intollerabile scriminatura e le pieghe dei suoi vestiti di moda.


Rakes è un robot, grottescamente caricaturale, asessuato e glaciale, che esprime l’arroganza e la cecità della legge, dell’ordine e della civiltà.
Gli si contrappone la rozza fierezza di Forrest, fuorilegge dai saldi principi ed emblema di un mondo in declino che affronta il proprio inevitabile tramonto.

Già, tutto piuttosto semplicistico e stereotipato, ma siamo dentro la retorica del genere e, in fin dei conti, qualche cliché ci può pure stare.
Fedele al proprio incarico, Rakes ordina arresti, dispensa rappresaglie e commissiona omicidi: chi non si piega viene letteralmente spazzato via.
Gli unici che resistono, manco a dirlo, sono gli impavidi Bondurant.
 

La guerra sarà senza esclusioni di colpi e, come al solito, ne faranno le spese i più fragili ed i più deboli.
Il film, tuttavia, non si fa mancare proprio niente (rischiando di mettere un po’ troppa carne al fuoco): dai corteggiamenti alla figlia del predicatore agli scalpitii di giovani troppo ambiziosi; dalle violente scazzottate alle immancabili storie di amicizie virili.



Hillcoat e il suo fido sceneggiatore Nick Cave (proprio lui) partono da una storia vera e da un romanzo biografico (che però non ha suscitato giudizi critici entusiastici) per proseguire il percorso dentro i generi classici del cinema americano: il bellissimo “The proposition” si è misurato con il western; “La strada” con la fantascienza catastrofista e distopica, oltre che con la tradizione dei road movie. “Lawless”, ovviamente, si iscrive al filone dei film di gangster.

Hillcoat pare interessarsi al genere (a quei generi così fortemente statunitensi) non tanto come esercizio di stile o come sentita partecipazione ad una particolare categoria narrativa; non compie decontestualizzazioni postmoderniste alla Tarantino, né si barrica dietro amarcord nostalgici. Il genere appare piuttosto un contenitore o, meglio, un vetrino da microscopio… una sorta di habitat naturale dentro il quale liberare il mito al fine di studiarne, analizzarne ed al fin svelarne cause ed effetti; il suo approccio al western, alla science-fiction o al gangster movie non si traduce mai in una vera e propria riscrittura sintattica, non sfocia nel lirismo celebrativo fine a se stesso, né si riduce a gretto revisionismo ideologico o a pura e semplice esaltazione: Hillcoat non è Sergio Leone, ma nemmeno Peckimpah, Eastwood o Ford. Il regista australiano rappresenta la mitopoiesi di sozzi moonshiner all’interno di una cornice di genere nel tentativo di provare ad investigare il processo stesso che trasforma la cronaca in leggenda, il dato storico in epopea. Si badi bene: non tanto per criticare o esaltare, quanto piuttosto per comprendere le conseguenze e la portata di un fenomeno ontologicamente americano.

Si prenda lo scampato attentato alla vita di Forrest: due loschi individui gli tagliano la gola da orecchio ad orecchio; la leggenda lo descrive trascinarsi a piedi per trenta chilometri, di notte, serrando i lembi della trachea sventrata con le mani, in cerca di un medico che possa rattopparlo… la leggenda tollera che un immortale sanguini, ma non che possa morire.
L’uomo, in realtà, viene salvato da Maggie Beauford (alias Jessica Chastain) la quale se lo carica in macchina dopo averlo rinvenuto completamente svenuto, in mezzo alla strada, in un lago del proprio stesso sangue; tutto ciò, dopo essere stata selvaggiamente picchiata e stuprata dagli stessi aggressori che hanno ferito Forrest. Già! La leggenda ha un altro sapore…


Ora, come dicevo ad Hillcoat non pare affatto interessare il perché nasca la leggenda di Forrest Bondurant, né chi la inventi.
Quello che più conta è il fatto stesso che l’epica origini; che la leggenda si diffonda; al punto che lo stesso Forrest è assolutamente convinto di aver effettivamente marciato per trenta chilometri con la gola squarciata.
Hillcoat non esprime biasimo o condanna per l’artificio; non esiste infatti un cantore che genera l’epopea colorando a tinte forti la grigia cronaca. Non c’è malizia, né abuso da parte di chi, come Forrest o Howard, si trova ad indossare i panni ingombranti dell’eroe.
Hillcoat si limita a registrare il dato, come a volersi appuntare che senza l’accettazione di tale presupposto – l’elemento mitico – non potrà mai essere realmente compreso (per uno straniero come lui) il profondo significato della cultura del popolo americano.
 

Quella americana è l’unica cultura che ha fatto della mitizzazione dell’uomo comune e dell’umanizzazione dell’eroe un elemento assolutamente inalienabile ed imprescindibile della propria essenza.
Prendete Marylin, Kennedy, Elvis, Buffalo Bill… tutte figure che per una ragione o per un’altra hanno trasceso la propria condizione umana e storica per ascendere ad una sorta di trasfigurazione epica: J.F.K. era sicuramente più dotato come farfallone che come statista, ma dopo Dallas il suo ciuffo ed il suo sorriso sono divenuti simboli assoluti di democrazia e libertà;
Ora, consderate Rambo, Superman, Indiana Jones, Batman… nessuno di questi eroi è immune ai fardelli psicologici, ai drammi familiari, ai patemi amorosi. Persino l’uomo d’acciaio Clark Kent, alieno del pianeta Kripton, è stato un ragazzino il cui corpo invincibile non lo ha risparmiato dalle problematiche dell’adolescenza.

In buona sostanza, Hillcoat ha compreso che bisogna fare i conti col mito se si vuole avere la pretesa di comprendere ed analizzare il linguaggio e gli strumenti culturali di quello che – volenti o nolenti – è stato il più importante ed influente paese del ventesimo secolo.
Anche l’Australia di Hillcoat è terra inesplorata e selvaggia, ha una recentissima storia moderna e vive problematiche e conflitti con la popolazione nativa, ma non è l’America perché non ne condivide la vocazione al mito. Cosa sarebbe stato Buffalo Bill senza il "selvaggio west"? senza la saga della frontiera? senza l'epopea di saloon troppo piccoli per pistoleri troppo veloci?
Se si vuole conoscere l'America basta studiarne la storia; per capirla occorre accettarne l’elemento mitologico. 


Lo dico con grande sincerità: non so se Hillcoat si è veramente posto tutti questi problemi, o se sono solo il frutto di una mia masturbazione mentale; dico solo che in “Lawless” si avverte fortemente questo tarlo che – consapevolmente o meno – deve aver condizionato (se non proprio ispirato) la realizzazione del film.

La regia, infatti, appare solida e rigorosa (si potrebbe definire “classica”), coadiuvata da una fotografia semplicemente eccezionale. La luce è calda, i colori saturi e accattivanti. La messa in scena ricorda le immagini delle migliori campagne pubblicitarie del passato o gli scatti di Walker Evans , William Eggleston o Stephen Shore. Si respira aria di epopea. Tanto splendore formale, tuttavia, ritrae catapecchie polverose, lerci saloon, fatiscenti scantinati... La luce ci inganna, ci lusinga, ci attrae verso una realtà altrimenti respingente, ostile, inospitale. Ovviamente, l’escamotage non costituisce affatto una novità, ma Hillcoat e Benoît Delhomme (l’eccezionale direttore della fotografia) eseguono la lezione con estrema perizia ed il contrasto che riescono a rendere è assolutamente funzionale alla descritta operazione analitica: lo studio della contrapposizione tra figurazione e realtà; tra mito e verità; tra epopea e cronaca. Ogni elemento di questo film è costruito su un contrasto: la bellezza delle immagini stride contro la fatiscente banalità del quotidiano; il mito di Forrest Bondurant colora la grigia cronaca del suo vero salvataggio.
Ma attenzione! Svelare il prestigio, in questo caso, non significa sminuirne il portento. Non è un’esortazione a rivolgere lo sguardo altrove: al contrario, costituisce un invito a guardare meglio, a socchiudere gli occhi per non farsi abbagliare dalle lusinghe della luce. Perché quei saloon, quelle insegne e quelle strade polverose sanno anche essere altro rispetto alla banale ordinarietà della loro natura
Sessant’anni di cultura pop ne costituiscono la testimonianza più nitida.



L’accettazione e la comprensione di questa apparente antinomia diviene un filo che si erge tra due modi inconciliabili e parimenti insufficienti di osservare il mondo amerciano. Solo dall’alto di quel filo, procedendo come l’equilibrista sulla fune, saremo in grado di abbracciarli entrambi, conciliando verità e leggenda... comprendere l’uomo attraverso la sua proiezione eroica.

Hillcoat tratta la materia con perizia e maestria. Padroneggia i codici espressivi e culturali di un popolo di cui dimostra di aver compreso l’intima essenza. Non scimmiotta, non imita, non critica e non riscrive. Semplicemente, raggiunge l’anima del grande cinema di genere americano. E scusatemi se è poco.



GIUDIZIO SINTETICO: Straordinaria fotografia e un Tom Hardy semplicemente titanico. Narrativamente troppi stereotipi e poche sfumature. Ma provate a guardare il film tenendo a mente che il regista non è americano! Provateci! Non ci riuscirete.

VOTO: 6/7















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