08/01/13

AJEOSSI - THE MAN FROM NOWHERE (di Lee Jeong-beom)


 
Ajeossi” è un chiassoso e patinato blockbuster sudcoreano.

Il protagonista è un bel figoso con ciuffo da boyband che, taciturno e nerovestito, gestisce un modesto banco dei pegni nel centro di Seul.
La sua vita è triste e solitaria. Solo una bimbetta vispa e intelligente lo viene regolarmente a visitare convinta – non si sa bene per quale ragione – che l’uomo possa proteggerla e riscattarla dalla miseria della propria esistenza.
La madre della piccola, infatti, è una tossica che lavora come stripper in un locale notturno assai malfrequentato. Una sera, la donna tenta il colpo della vita e ruba una partita di droga alle persone sbagliate. Il gioco, però, dura molto poco e i gangster, capito chi è il vero responsabile del furto, rapiscono madre e figlia per recuperare il maltolto e rifarsi della perdita con gli interessi (la donna verrà fatta a pezzi e i suoi organi rivenduti al mercato nero, mentre la bambina verrà affidata ad una vecchia megera in attesa di farle fare la stessa fine della madre).
I cattivi, però, non hanno fatto i conti col nostro eroe tenebroso il quale, a parte l’aspetto emo, si rivela un cazzutissimo e spietato ex agente segreto, addestrato all’uso delle armi ed esperto di ogni tecnica di difesa e, soprattutto, di offesa. L’uomo, ritiratosi a vita privata e solitaria dopo che, anni prima, la fidanzatina gravida era rimasta uccisa in un attentato rivolto contro di lui, verrà bruscamente riportato alla vita e all’azione a causa del rapimento della giovane amica.

Alla fine, il bene trionferà sul male.



Con grande sincerità, nulla di nuovo sotto il sole: alcune belle sequenze (su tutte il salto in corsa dal primo piano attraverso la vetrata) non bastano a riscattare una pellicola che è la mera somma di troppi cliché. Anche i riferimenti cinematografici sono fin troppo evidenti e banalmente citazionisti (“Leon” su tutti). Tuttavia, a differenza che nel cinema di Tarantino o di Johnny To, qui la citazione non diviene poetica postmoderna, né riferimento epico o esistenziale, ma solo banale scimmiottatura.
Il film sembra un cocktail di tutti gli ingredienti noir buttati dentro un po’ a caso: un eroe dal passato oscuro e dal presente malinconico e solitario; una bimbetta bella/furba/vispa/con gli occhioni tristi e, ovviamente, nei guai fino al collo; cattivi cattivissimi disposti a cavare gli occhi di una ragazzina e a rivendere gli organi della madre; la polizia che non ci capisce mai un’acca e brancola a caso. C’è anche un vecchio negoziante dal cuore d’oro, un killer vestito come Simona Ventura e, ovviamente, un pazzo psicopatico che va in giro con un coltello dalla lama ricurva.
Troppi stereotipi, troppe telefonate.



Troppe incongruenze: i killer ora sono spietati e crudeli assassini, ora stravaganti macchiette uscite dalla caricatura di un manga demenziale. Il protagonista ha rinunciato a vivere per il dolore subito dalla perdita della fidanzata gravida, ma accetta di affrontare un intero clan per il senso di colpa di non aver aiutato una bimba mentre veniva sgridata per aver frugato nello zainetto di un compagno di classe (in una scena tanto inutile quanto patetica).
Manca ogni plausibilità o, quantomeno, qualsiasi forma di autoironia.

Il film, poi, è veramente lunghissimo e mal equilibrato nella gestione del ritmo e dei tempi di messa in scena (sempre troppo lunga o troppo repentina).

Anche nei toni, il regista non sembra avere idee chiare e precise su quale direzione prendere: parte come un noir metropolitano, diviene quasi un melò, poi devia verso il grottesco, per finire come un action gongfupian.
Tematiche da noir francese, atmosfere hongkonghesi, violenza coreana, coreografie cinesi… manca solo lo spaghetti western e la commedia all’italiana per completare l’orgia di riferimenti.
Certo, il cinema asiatico ci ha da tempo abituati ibridazioni e contaminazioni assai ardite, a linguaggi, caratterizzazioni e personaggi ai limiti del bizzarro e dell’incredibile (basti pensare ai vari film di Shion Sono, di Takashi Miike, di Jee-woon Kim, o di Shinya Tsukamoto solo per citare i più noti), ma nel caso di specie la struttura è troppo manierista per essere veramente efficace e colpire allo stomaco come dovrebbe.



È un po’ come se il film proseguisse sempre col freno tirato, oppure a diecimila giri, ma costantemente in prima… manca quel coraggio di osare, di sperimentare, di rischiare.
Manca di “autorialità”: e non perché il regista dica cose poco interessanti (concetto relativo e sempre personale), quanto perché le dice senza quell’audacia consapevole, quella capacità di rispettare ed al tempo stesso superare le convenzioni del genere, quella arroganza artistica capace di immolare struttura e coerenza logica sull’altare della poetica e del messaggio.

Certo, il film è un blockbuster (tra l’altro assai premiato dal pubblico e pure lodato da tanta critica), ma i temi trattati e i riferimenti più o meno velati nascondono una vocazione alta e altra che non riesce quasi mai a tradursi in immagini coerenti. Del resto, soprattutto nell’industria cinematografica asiatica, non vi è grande autore che non si sia trovato a lavorare all’interno di una grande produzione (oltre ai sopracitati registi, basterà ricordare John Woo, Tsui Hark, Johnny To). Eppure la committenza, per quanto pressante, non ha mai soffocato la poetica di tali artisti.
In ogni caso, anche volendolo giudicare come mero prodotto di intrattenimento da grande pubblico, il film si prende un po’ troppo sul serio e non riesce mai a divertire quanto dovrebbe. Peccato perché le potenzialità ci sarebbero anche state.



GIUDIZIO SINTETICO: Rimandato, ma non definitivamente bocciato!

VOTO: 5,5




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