04/02/13

TYRNNOSAUR (di Paddy Considine)




Il tirannosauro è il simbolo della nostra memoria: enorme, ingombrante, carnivora.
Per Joseph (interpretato da un Peter Mullan in stato di grazia)  “tirannosauro” era il nomignolo dato alla moglie nelle sue ultime settimane di vita, quando i passi della donna, appesantiti dalla malattia, rimbombavano per casa come le falcate di un gigantesco mostro preistorico.
Quel ricordo è una ferita aperta che gli strazia l'animo e che non sa rimarginare.

Ogni uomo ed ogni donna che hanno conosciuto una qualunque forma di dolore sanno che, quel dolore, è un marchio a fuoco nella pelle, nei ricordi, nella coscienza. Il passato non è una terra straniera, ma un mostro primordiale che bracca senza tregua e contro il quale bisogna imparare a lottare se non si vuole immolarglisi come meri tributi di carne.

Paddy Considine spara il suo film d’esordio con un competenza da veterano e con una potenza di fuoco che atterrisce: “Tyrannosaur” è fatto di immagini solide e rigorose. Il ritmo ed i tempi della narrazione sono semplicemente perfetti. Le scelte di casting sono superlative (l’impressione è che ogni faccia, ogni interprete, ogni comparsa sia proprio quella giusta). La selezione musicale che funge da colonna sonora è notevole ed efficace. L’uso e la rappresentazione della violenza sono sempre brutali, ma mai gratuiti.

In questo film ci sono sottoproletari ubriaconi, vecchi disoccupati, giovani arrabbiati e borghesi benestanti. La working class inglese non è mai stata così drammaticamente disperata, arrabbiata, smarrita. La middle class, a sua volta, ne esce completamente a pezzi, incapace di trovare, nelle sue piccole certezze, una qualunque fonte di gioia e di senso alla propria miseria esistenziale.
L’umanità, tutta, raggiunge la propria definitiva disgregazione dell’essere.

L’ambiente che fa da sfondo a “Tyrannosaur” parrebbe iscrivere la pellicola all’interno di un filone assai caro alla cinematografia britannica: il film politico a sfondo sociale.
Ma dimenticate Ken Loach; dimenticate i film di Sheridan. Non siamo di fronte al solito film sul sottoproletariato inglese fatto di poveri cristi, buoni ma sfigati, sempre oppressi dal sistema.
Siamo più dalle parti di Mike Leigh, se proprio vogliamo trovare un riferimento cinematografico, ma con tinte che virano decisamente verso il nero più fosco.
Il campionario umano che popola il film non è costituito dai soliti personaggi burberi, ma simpatici; violenti, ma dal cuore d’oro; magari costretti a delinquere, ma per colpa delle circostanze e sempre loro malgrado (come nella stragrande maggioranza dei film britannici di questo tipo).
Non piovono pietre dal cielo… sono i cuori degli uomini, piuttosto, ad essere duri e pesanti come macigni.


Il gradissimo merito di Considine è stato quello di riuscire a dipingere a tinte fortissime un affresco che rimane intensamente “antropologico” e mai “politico”.
Il regista non tenta mai di giustificare i propri personaggi con la scusa della povertà, della mancanza di lavoro, del “sistema” bastardo e corrotto.
Il taglio non è mai documentaristico: pertanto, il registro visivo è caratterizzato da un insolito distacco, favorito dalla consapevole rinuncia alla macchina a spalla (che, invece, avvicinerebbe troppo, portando lo spettatore allo stesso livello dei personaggi).
Nessuna casualità di ripresa, dunque. Considine oppone un deciso rifiuto ai linguaggi di tipo amatoriale ed alla poetica del finto verismo.
Il regista dimostra grandissima consapevolezza. Il suo è uno sguardo a distanza che si esprime attraverso immagini statiche, inquadrature formalmente elaborate e, addirittura, eleganti; segue gli eventi con movimenti di camera minimali e si esprime attraverso un montaggio fortemente ellittico: molto spesso il racconto si interrompe poco prima che il climax raggiunga il suo pieno compimento e scopriamo l’avvenimento di determinati fatti solo dall’analisi postuma delle loro conseguenze.
Considine, dunque, afferma una programmatica dichiarazione di intenti: sceglie di essere regista e non reporter.
Sia chiaro, non c'è nessun merito nell'essere l’uno piuttosto che l’altro. L’importante è avere ben chiara la distinzione e, una volta deciso da che parte stare, rimanere coerenti alla scelta. Considine non si limita a registrare la realtà così come la trova. Considine la interroga, la interpreta e la rielabora secondo la propria personale visione del mondo. Il suo grande merito (a differenza della maggior parte dei più famosi colleghi) è quello di riuscire sempre a rimanere "regista" e di non cedere mai alla tentazione di far passare le sue immagini come verità oggettive. Il distacco del suo sguardo, l'eleganza formale delle inquadrature, l'uso della luce e le stesse scelte di montaggio ricordano costantemente allo spettatore che la visione non è qualcosa di "trovato", bensì il frutto della personale poetica del regista.

Il contesto urbano che fa da sfondo alla vicenda è estremamente funzionale alla narrazione. Le casette a schiera della periferia coi loro giardinetti sporchi che sembrano discariche, gli orrendi e spaventosi casermoni dei sobborghi e gli appartamentini ordinati e squallidi della piccola borghesia costituiscono una scenografia perfetta per l’esasperazione della vicenda, ma non divengono mai alibi o ragione del dramma. Non rappresentano le cause della patologia, ma i suoi sintomi.


Grazie a dio Considine se ne frega altamente di provare giustificare i suoi antieroi.
Non ho mai amato Ken Loach perché lo trovo intellettualmente disonesto, politicamente retorico, falsamente cinico e profondamente ingenuo.
Mr. “Piovono pietre” è convinto che l’uomo sia un animale buono reso cattivo dalla gabbia del sistema in cui vive.
Proprio per niente!!!
Il sistema (che comunque non difendo, sia ben chiaro) è invece la gabbia che ostacola l’altrimenti inevitabile degenerazione della violenza insita dentro ogni uomo. Basta che le sue maglie allentino appena la pressione che subito l’umanità non perde occasione per offrire il peggio di sé. Il sistema fa schifo, ma senza sarebbe addirittura peggio.
L’uomo è un animale rabbioso, violento, aggressivo. Lo è a tutti i livelli sociali, a tutte le età, i generi e le razze.
Rabbia, violenza e disperazione non sono figlie della miseria, della mancanza di lavoro, della sfiducia nel futuro.
Certo, vivere da disoccupato in una corea di Leeds di sicuro non alimenta l’autostima; ma l’indigenza non genera la nostra cattiva natura, tutt’al più la smaschera.
La retorica di Loach (da cui bisogna partire se si vuole capire la grandezza del film di Considine) mi fa venire le carie ai denti: buoni padri di famiglia “costretti” a rubare per comprare il vestitino da comunione della figlioletta; onesti operai senza più lavoro che cadono nell’alcolismo, ma sempre pronti alla buona azione e che, quando delinquono, lo fanno perché costretti dai debiti.
Considine ha compreso che l’economia può frenare, anestetizzare e sedare la carogna, ma solo fino ad un certo punto. Anzi sono proprio i più benestanti, che in teoria non sarebbero coperti da giustificazioni sociali, ad essere i più spietati e i più crudeli (nel film, il personaggio più disgustoso è sicuramente il marito di Hannah che appartiene alla middle class).
Ribadisco per non generare equivoci: non difendo il sistema, è che non credo nella bontà degli uomini.

La pellicola si focalizza su due vite. Due diverse solitudini. Due esistenze in lotta col proprio tirannosauro. E il tirannosauro sta vincendo su tutta la linea.

Joseph schiuma di rabbia; ce l’ha col mondo e si disintegra di alcol per il puro gusto di stordirsi e farsi del male. Odia il prossimo suo come e forse ancor più di se stesso. Odia dio, la religione ed ogni forma di promessa di redenzione. Il mondo fa schifo e la sua vita pure. Non provate a parlargli di piani divini e di salvezza perché vi ricoprirà di insulti e vi riderà in faccia.
Joseph ha il volto segnato di Peter Mullan il quale regala forse la più intesa interpretazione della sua carriera caricando il proprio personaggio di una fisicità che ha pochi epigoni nella storia recente del cinema (penso a Fassbender in “Shame”, Mads Mikkelen in “Valhalla Rising” o Tom Hardy in “Bronson”).


Olivia Colman è Hannah, una fervida ed ottusa cattolica che gestisce una bottega. La sua fede è solamente uno scudo; è una barriera dietro cui nascondersi dal mondo. La religione non è la promessa del paradiso e non è nemmeno una questione di fede; come il whisky cattivo, la religione non offre sollievo o piacere: è piuttosto un narcotico nel quale annegare la propria vita schifosa.
La donna ha un’apparenza dolce, gentile, premurosa, ma cova la stessa rabbia disperata di Joseph.
Due vite (Joseph e Hannah), due condizioni sociali (middle class e working class), due situazioni famigliari differenti (sposata lei, vedovo lui), ma la stessa croce da portare.
L’alcol e la religione sono strumenti di oblio. Sedativi per il tirannosauro.
Come Joseph è perseguitato dal ricordo della moglie prematuramente defunta, così Hannah non può scordare l’errore di aver sposato un uomo malvagio e disumano. Suo marito (un grandissiomo Eddie Marsan), infatti, non perde occasione di brutalizzare la donna: picchiandola, stuprandola, umiliandola e negandole ogni minima fonte di gioia.

La vita è un inferno.

Considine ha saputo affrescare i cliché della periferia inglese (il pub, le sbronze, la violenza domestica, i cortili disfatti e le case di cattivo gusto) senza mai inciampare nelle trappole della facile retorica.

Il regista non simpatizza mai per i suoi personaggi, né chiede allo spettatore di farlo. Emblematica, da questo punto di vista, è la sequenza iniziale del film: Joseph, completamente ubriaco, uccide a calci il proprio cane, forse l'ultimo essere rimastogli fedele… non riesco ad immaginare un modo peggiore (in senso empatico) per presentare il proprio protagonista.
No, non c’è proprio nessuna richiesta di simpatia o affetto per questi mostri: tuttavia, anche se non riusciamo ad assolverli (in primis, perché nessuno di loro chiede assoluzione; e chi saremmo poi noi per dispensarla?), possiamo almeno sforzarci di comprenderli, riconoscendo in loro le stigmate della nostra stessa sofferenza, della nostra stessa rabbia. Ognuno di noi ha il proprio tirannosauro da portare a spasso.

Il caso farà incontrare queste due anime arrabbiate e disperate, ma non finirà con mazzi di rose e musica d’archi, bensì con un altro cane ammazzato e le note di “We Were Wasted” dei The Leisure Society in sottofondo. Life sucks!



GIUDIZIO SINTETICO: Un piccolo gioiello che purtroppo rimarrà sconosciuto ai più per le logiche dementi della grande distribuzione. Immagini rigorose, recitazione sublime. Un Peter Mullan che racchiude in se tutta la rabbia del mondo. Un pugno nello stomaco che ha lo strano effetto di farci sentire un po' meno soli. Recuperatelo! Assolutamente!!!

VOTO: 8







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