26/02/14

12 ANNI SCHIAVO (di Steve McQueen)





Prendo atto del fatto che, ormai giunto alla sua terza prova registica, anche il buon McQueen si sia asservito ad un certo cinema di maniera, che, seppur appagane e stimolante da un punto di vista squisitamente visivo, risulta un po’ sterile e soprattutto fine a se stesso, specie se applicato “a prescindere”.

È un po’ lo stesso vizio di Malick: talvolta, capita che un personalissimo registro stilistico impressioni e colpisca il mondo per le sue capacità di rendere alla perfezione un particolare stato d’animo o di esprimere un dato sentimento o di raccontare una determinata vicenda... tuttavia, non è affatto scontato che quello stesso registro stilistico – per quanto straordinario – sia applicabile a qualunque storia ed a qualunque contesto narrativo.

Così, se lo “stile Malick” funzionava a meraviglia per “La sottile linea rossa”, quello stesso stile ha funzionato solo a tratti per “L’albero della vita” e si è rivelato assolutamente catastrofico per “To the wonder”.
Se giri “Nostalghia” con lo stesso stile di “Pulp fiction” è molto probabile che ne esca una merda… ovviamente non è detto, ma è sicuramente molto verosimile.
Il concetto non dovrebbe essere particolarmente difficile da capire. Eppure la tentazione è grande e forte e ci cascano quasi tutti.

Esiste uno “stile Lynch”, uno “stile Anderson”, uno “stile Scorsese”, che sono ben riconoscibili e che funzionano da dio per i rispettivi autori perché David Lynch, Wes Anderson e Martin Scorsese hanno trattato per tutta la loro carriera sempre gli stessi temi e girato – tutto sommato – sempre lo stesso film. O quasi. E la cosa non è un male, di per sé. Né una furbata da esecrare. È semplicemente una scelta. Ovviamente, non puoi fare 20 film UGUALI, ma può essere assai stimolante avere 20 approfondimenti su uno stesso tema.

Poi ci sono alcuni rarissimi geni che non solo sono stati capaci di inventare uno stile personale ed efficace, ma anche di abbandonarlo di punto in bianco quando, quello stesso stile, non era più congeniale alla loro evoluzione artistica. Così, uno come Michelangelo Antonioni, dopo aver speso la prima metà della sua carriera a girare le sue personalissime variazioni Goldberg dell’incomunicabilità umana tra gli scenari estremi e poetici della bassa emiliana, è stato anche capace – con lucida genialità – di emanciparsi dal suo tratto ormai codificato, sviluppando, per le pellicole a seguire, nuovi temi, nuovi linguaggi, nuovi codici visivi. Così, se “L’avventura”, “La notte” e “L’eclisse” sono praticamente lo stesso film, pellicole come “Il deserto rosso”, “Blow up” e “Professione Reporter” sono invece completamente differenti e lo sono sia rispetto ai primi lavori, sia tra di loro: girare “Zabriskie point” allo stesso modo dell’”Il grido”, semplicemente perchè la formula aveva funzionato, forse sarebbe stato più comodo per il regista ferrarese, ma anche profondamente sbagliato e ottusamente presuntuoso. Il pubblico è scemo, ma non così scemo. E c’è un motivo se Guy Ritchie non sarà mai Tarantino.


Ora, il buon McQueen ha costruito i suoi primi lavori imperniandoli sul suo efficacissimo e straordinario stile, costruito sulla brutale fisicità dei suoi eccezionali interpreti, giocato su lunghissime sequenze spinte al limite dell’intollerabilità, in cui il racconto si legge più sui volti e sui corpi degli attori, che sulle trovate di sceneggiatura. A McQueen non fotteva una minchia delle ragioni politiche di Bobby Sands. Nel suo tostissimo “Hunger” il regista inglese non si è certo sprecato a spiegare dettagliatamente le rivendicazioni dell’attivista dell’IRA, né i suoi moventi o le origini del suo pensiero. Certo, le informazioni di base, in qualche modo, venivano anche fornite, ma quello che intrigava McQueen era piuttosto esplorare – in itinere – il formarsi e lo svilupparsi di un’autentica ossessione. McQueen si occupa di anime, di animi, di coscienze e di esistenze. Non racconta storie; non intreccia trame; non gioca coi colpi di scena. Il suo sguardo non stacca mai dai suoi antieroi. Il bravissimo Fassbender (suo attore feticcio) per due intere pellicole si è immolato alla causa, lasciandosi brutalizzare dallo sguardo morboso del suo regista, fino a trasformarsi fisicamente, prima ancora che attorialmente, nel personaggio dello script.
McQueen usa gli attori come lo scienziato usa i topi da laboratorio. Li cala in un ambiente ostile, li sfinisce psicologicamente e fisicamente, ne studia al microscopio le azioni e le reazioni. Non indaga i loro moventi, se ne frega di chi siano e di cosa li abbia fatto diventare quello che sono. Gli interessa solo analizzare il percorso evolutivo delle loro ossessioni mentre deflagra nella loro coscienza. Vivere per anni senza lavarsi, in un ambiente di due metri per tre, cospargendo le pareti della propria stessa merda e rinunciando al cibo fino a morirne, per McQueen non è (solo) un atto politico (o, almeno, non come lo sarebbe per un Ken Loach qualsiasi), ma prima di tutto uno stato esistenziale che affascina e rapisce IN QUANTO TALE. I primi film di McQueen mi hanno ricordato molto “Martyrs”, straordinaria e sottovalutata pellicola in cui la repulsione dello sguardo arriva addirittura ad incantare, inchiodando lo spettatore ad una visione di orribile meraviglia e di insostenibile attrazione, durante ed alla fine della quale non ci si può non interrogare sulla responsabilità e sul senso dello sguardo.
Ecco, gli eroi di McQueen, più ancora che vittime di mere ossessioni o di singolari patologie, mi ricordano dei moderni màrtiri, il cui estremismo folle è quanto di più simile ad una novella e malata ricerca di trascendenza. O, quantomeno, di senso. Bobby Sands (“Hunger”) e Brandon (“Shame”) sono come i santi arsi in graticola e torturati a morte. Solo che il regista non li giudica mai dal punto di vista morale, non li analizza psicanaliticamente, non li studia antropologicamente. A McQueen interessa raggiungere assieme a loro il limite estremo. Per scoprire, una volta raggiunto, cosa vi si trovi… La morte e la pace, per Bobby Sands… forse la salvezza per Brandon… ribadisco: i film di McQueen sono come agiografie malate ed estreme, concentrate non tanto sulle azioni del santo, quanto sul suo martirio. Fino a che profondità è lecito spingersi per definire se stessi? Fino a che punto è lecito guardare? E cosa c’è in fondo al cammino? 
Questo è il Cinema di McQueen. Mostrare la via crucis del martire. Non i suoi moventi o le ragioni della sua fede.

Ed eccoci a “12 anni schiavo”. Ancora una volta, lo stile prevarica e sovrasta la narrazione. La storia vera, o verosimile, di Solomon Northup viene raccontata attraverso lunghissime sequenze in cui il germe della schiavitù spiega i suoi brutali effetti sugli uomini. La macchina da presa indugia a lungo sulle carni martoriate dai colpi di frusta, sui volti tumefatti dal pianto e dal dolore, sui corpi esposti come merci al mercato… a contrastare il tutto, giganteggiano le magnifiche location dei territori sudisti: giardini curati come gioielli, splendide case coloniche, una natura solare e rigogliosa; un autentico tripudio di colori brillanti ed incantevoli.


Eppure, questa volta, il trucco non riesce. Già, perché il film non racconta – come al solto – di ossessioni e martìri, bensì mette in scena una storiona pesissima, con intenti dichiaratamente politici e topoi tipici del cinema drammatico più canonico (rottura dell’ordine costituito, violenza, disperazione, adattamento, speranza, salvezza).
La storia è quella dell’uomo libero Solomon Northup, che venne drogato, rapito e venduto come schiavo ai latifondisti bianchi della Georgia.
La schiavitù di Solomon durò dodici interminabili anni, al termine di quali riuscì a ritrovare la perduta libertà, la propria famiglia e pure il tempo di scrivere un libro sulle proprie tremende avventure. Dodici interminabili anni durante i quali sperimentò la più ottusa brutalità dei bianchi, l’indifferenza e la solitudine degli altri schiavi, la violenza  la stupidità degli uomini.

Ecco, se decidi di volermi raccontare una storia così, costruendola sulla palese e tremenda ingiustizia che ne sta alla base, devi farlo come si deve. E ci sono un sacco di possibilità: puoi farlo in modo un po’ retorico e classicheggiante alla Ron Howard, oppure spingendo il pedale sul sentimentalismo più melenso alla Spielberg o, ancora, scegliendo di indignare e scuotere lo spettatore come in un qualunque film di Sheridan
Ma, con una storia del genere, lo stile McQueen non funziona affatto. Perché la visione non indigna quanto dovrebbe; non emoziona quanto meriterebbe; non commuove quanto potrebbe. Non ci arrabbiamo mai veramente. Non urliamo. Non battiamo piedi e mani. Non ci immedesimiamo fino in fondo nel protagonista e – in verità – non ce ne frega mai un cazzo della fine che farà (anche perché sappiamo già che – essendo una storia vera o, quantomeno verosimile – in qualche modo porterà a casa la pellaccia).


Il problema di fondo, per McQueen, è che Solomon Northup non è interessante come Bobby Sands (per McQueen, ribadisco, non in generale). Non ha ossessioni da alimentare o fantasmi da combattere. Non cerca se stesso, né un senso a quello che gli accade. Non è un màrtire che si nutre delle proprie ossessioni per trovare un senso alla propria esistenza e una definizione della propria identità. È un povero diavolo che ha subito il peggiore dei torti e che lotta disperatamente per sopravvivere; tra l’altro, facendo di tutto per non riuscirci.
Già, perché McQueen è sicuramente un artista della madonna, ma è un pessimo storyteller. Non ha i tempi cinematografici di un Sergio Leone, la ruvida epicità di un Eastwood o la linearità di un Soderbergh… Non ha nemmeno la granitica solidità di un Fincher o il professionale mestiere di un Emmerich.

McQueen sa girare da dio - è indubitabile - solo che stavolta mette il suo incommensurabile talento al servizio di un film in cui sbaglia quasi tutto e in cui cade in ogni trappolone retorico.
Non amo i film in cui ci sono i buoni ed i cattivi (a meno che non siano degli action con le mazzate). Addirittura li odio se hanno la pretesa di essere film dichiaratamente “politici” ed “impegnati”. E da un regista nero, inglese, che decide di girare un film sulla schiavitù in America… beh, qualcosa di molto politico non posso non aspettarmelo. Già la scelta di fare un film del genere è un atto politico in senso stretto. Solo che non mi frega un cazzo dei film in cui i nazisti parlano con la "t" al posto della "v" e sono malvagi per natura, in cui gli arabi sono solo dei fanatici assassini e in cui i comunisti mangiano i bambini a colazione. Con questo non voglio assolutamente dire che McQueen doveva girare il proprio film sostenendo che i neri si meritavano di essere schiavi e che i latifondisti della Georgia erano tutti degli stinchi di santo. Dico solo che, oramai, anche l’ultimo dei bifolchi cerebrolesi che gira per i campi della Louisiana con un cappuccio in testa dando fuoco a tutte le croci che incontra si è ormai convinto che la schiavitù NON sia stata una buona cosa. Magari pensa che i “negri” siano buoni solo se impalati, ma non si sognerebbe mai di pensare che sarebbe figo andare al mercato a comprarne un paio. Per cui il film, tutto sommato, serve molto a poco.

12 anni schiavo” ci racconta con grande enfasi la storia dell’acqua calda. So già che questa mia affermazione solleverà un putiferio di polemiche: ma come, direte, voi, la schiavitù in America è una ferita ancora aperta… ci sono pochissimi film dedicati all’argomento… McQueen, finalmente, restituisce dignità alla Storia… bla bla bla.
Primo: questo film l’ha girato un nero-intellettuale-pluripremiato-videoartista-britannico che gli ha fatto fare il giro dei Festival di tutto il mondo. Non uno sconosciuto mestierante di Hollywood per farlo andare in onda il pomeriggio di Natale alla multisala del mole in centro.
Secondo: in questo film, l’analisi storica e la rappresentazione che ne segue sono talmente di grana grossa che sembra una produzione di Rai2, e di quelle peggiori (se mai ne esistessero delle migliori): da una parte i bianchi, che sono stronzi, malvagi e cattivi; dall’altra gli schiavi, che sono buoni, intelligenti e capaci. La schiavitù è una brutta cosa; per fortuna tra gli uomini bianchi ci sono anche i Brad Pitt che sono biondi, belli, buoni e bravi e che con il loro coraggio ed altruismo hanno saputo sconfiggere la schiavitù. Mi sembra un’analisi del menga, che non ci dice nulla di interessante e che non approfondisce in alcun modo un tema che per millenni ha purtroppo contraddistinto la storia dell’uomo. 


Da uno come McQueen mi sarei aspettato un film completamente diverso e, soprattutto, domande e dilemmi assai più interessanti (anzi, mi sarei aspettato degli interrogativi tout court visto che il film non ne pone alcuno): cosa spinge un uomo a considerare merce un altro uomo? È solo un fatto culturale? O c’è di più? È qualcosa che appartiene intrinsecamente all’animo umano, oppure è un mero fenomeno storico, destinato a non ripetersi mai più? Potremmo tutti, in dati contesti e condizioni sociali, essere nel profondo razzisti e schiavisti, oppure esiste un alito di coscienza dentro l’animo umano capace di impedire alla maggioranza di noi di comprare un altro individuo e trattarlo come merce. E se questa coscienza esiste, perché la schiavitù è durata così a lungo nella storia dell’umanità? Ed ancora, è veramente finita o ha assunto semplicemente altre forme e altri nomi? Io sono un cretino e così, su due piedi, mi sono venuti fuori questi quattro retorici e banali interrogativi (che sono comunuqe di più di quelli posti dal film). Ma da un regista che viene conteso dai festival più importanti del mondo e che è stato sul tema per mesi, mi sarei aspettato tutto quello che il film non ha saputo essere.
Insomma, mi sono ritrovato a vedere un prodotto molto ben confezionto, ma tutto sommato poco interessante, bellissimo visivamente, ma intellettualmente manicheo e drammaturgicamente imbarazzante.
Ci sono fin troppi buchi di sceneggiatura, questioni che non tornano, deviazioni di trama che non si spiegano.
I caratteri dei personaggi principali sembrano tagliati con l’accetta (ci sono i buoni, ci sono i cattivi, terzium non datur). Non è vero: ci sono i buoni, ci sono i cattivi e poi c’è Brad Pitt.
Soprattutto, il film procede a tentoni. McQueen è talmente preso a specchiarsi nella bellezza delle proprie immagini che, un po’ troppo spesso, si dimentica pezzi di storia per strada. La narrazione inciampa, arranca, si incarta. I personaggi fanno le cose a caso. Cambiano opinione e stato d’animo senza ragioni apparenti. Solomon vuole sopravvivere, ma non ne combina una giusta. Si fa cacciare come un pirla dall’unico padrone bianco con un minimo di cuore. Ha un talento naturale per inimicarsi qualsiasi bastardo aguzzino che si trovi a passare per caso nel suo raggio di azione. E quando finisce fra le grinfie del perfido Epps (Fassbender) che ti combina? Si lega emotivamente alla sua schiavetta favorita facendolo incazzare come una bestia. Ma dico, sei scemo? Viene descritto come intelligentissimo e abilissimo, sa leggere e scrivere e pure suonare da dio il violino, ma non riesce ad inventarsi mezzo trucco per far partire una lettera dando notizia di sé ai famigliari. In dodici anni! durante i quali ha comunque sufficiente spazio di manovra per andare TUTTO SOLO avanti ed indietro per i campi della Georgia. Nel film succedono cose senza senso. Perché tutta la tiritera di lui che va a consegnare le lettere per la moglie di Fassbender, se poi ciò non porta a nulla di drammaturgicamente interessante? Adesso non voglio stare qui a fare l’elenco di tutte le cose che non quadrano, ma il punto è che ce ne sono un botto e che alla fine, per far quadrare il tutto, si risolve la questione grazie ad un mormone che passava di lì per caso… Cazzo, è mai possibile che in due ore e passa di film in cui hai provato a raccontarmi un personaggio come motivato a sopravvivere, voglioso di tornare a casa, intelligente come pochi e talentuoso in tutto, mi risolvi il film grazie ad una merenda con un mormone di passaggio…? e ancora, è mai possibile che nessuno si sia indignato di fronte a Brad Pitt che finanzia e produce un film in cui l’unico bianco meritevole ed eroico è LUI?

Il problema vero di questo “12 anni schiavo” è che è NOIOSO. E non ho nulla contro i film noiosi. Ne ho visti un sacco. Ma qui la noia è un difetto. Non serve a nulla. È come un cellulare che squilla al cinema: semplicemente, rompe i coglioni. McQueen non è a proprio agio con la narrazione tradizionale. Non è grave. Basta non fare polpettoni sulla schiavitù col solito bovero negro maldraddado e sfruttato dal bieco badrone bianco e continuare a fare film di gente che si caga in faccia e che si scopa anche il bicchiere del limoncello.
Fidati, caro Steve, i secondi sono molto più nelle tue corde.



GIUDIZIO SINTETICO: Cornice e confezione sopraffina, ma il contenuto è come quello dell’uovo di pasqua. Una delusione. Fassbender giganteggia in un personaggio che, per colpe non sue, risulta sempre troppo monodimensionale. Brad Pitt si deve vergognare!

VOTO: 6








5 commenti:

  1. Io invece l'ho trovato il migliore di McQueen.
    Ha unito l'autorialità al gusto mainstream, e non mi ha neanche annoiato! ;)

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  2. @James Ford
    E' il bello del Cinema... quello che piace a me, non è detto che piaccia anche agli altri e viceversa... Però devi darmi atto che autorialità (nelle forme in cui la esterna McQueen, che è roba molto diversa dal cinema di uno Scorsese o di un Coppola, che sono molto più appetibili e masticabili per il grande pubblico) e mainstream mi sembrano un po' un ossimoro... ripeto: de gustibus! Benvenuto nel Blog

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  3. Ho trovato il tuo blog e lo sto scoprendo con piacere. Le tue recensioni sono accurate, almeno su i film che hai scelto di recensire, e mi sembrano anche oggettive. Questo film mi è piaciuto, e come te concordo sul fatto che hanno inserito qualche buffonata di contorno che era risparmiabile, tuttavia il senso del film e ciò che muove gli eventi è molto reale e intenso. Nel sunto, il film mi è piaciuto e anche l'interpretazione dei protagonisti!

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  4. cmq chiedo scusa, la recensione era per il film "warrior" e sbadatamente l'ho lasciata sotto "12 anni schiavo".

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  5. Ciao Michi, benvenuto nel blog. Sul genere "Warrior" ho visto recentemente un film che si intitola "Wolf"... se ti capita, può essere una visione interessante.

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