Prendo atto del fatto che, ormai giunto alla sua terza prova
registica, anche il buon McQueen si sia asservito ad un certo cinema di maniera, che, seppur appagane e
stimolante da un punto di vista squisitamente visivo, risulta un po’ sterile e
soprattutto fine a se stesso, specie se applicato “a prescindere”.
È un po’ lo stesso vizio di Malick: talvolta, capita che un
personalissimo registro stilistico impressioni e colpisca il mondo per le sue
capacità di rendere alla perfezione un particolare stato d’animo o di esprimere
un dato sentimento o di raccontare una determinata vicenda... tuttavia, non è affatto scontato
che quello stesso registro stilistico – per quanto straordinario – sia applicabile
a qualunque storia ed a qualunque contesto narrativo.
Così, se lo “stile Malick” funzionava a meraviglia per “La sottile linea rossa”, quello stesso stile ha funzionato solo a
tratti per “L’albero della vita” e si
è rivelato assolutamente catastrofico per “To the wonder”.
Se giri “Nostalghia” con lo stesso stile di “Pulp fiction” è molto probabile che ne esca una merda… ovviamente non
è detto, ma è sicuramente molto verosimile.
Il concetto non dovrebbe essere
particolarmente difficile da capire. Eppure la tentazione è grande e forte e ci
cascano quasi tutti.
Esiste uno “stile Lynch”, uno “stile
Anderson”, uno “stile Scorsese”, che sono ben riconoscibili e che funzionano da
dio per i rispettivi autori perché David Lynch, Wes Anderson e Martin Scorsese
hanno trattato per tutta la loro carriera sempre gli stessi temi e girato –
tutto sommato – sempre lo stesso film. O quasi. E la cosa non è un male, di per
sé. Né una furbata da esecrare. È semplicemente una scelta. Ovviamente, non
puoi fare 20 film UGUALI, ma può essere assai stimolante avere 20
approfondimenti su uno stesso tema.
Poi ci sono alcuni rarissimi geni
che non solo sono stati capaci di inventare uno stile personale ed efficace, ma
anche di abbandonarlo di punto in bianco quando, quello stesso stile,
non era più congeniale alla loro evoluzione artistica. Così, uno come Michelangelo Antonioni, dopo aver speso la prima metà della sua carriera a girare le sue
personalissime variazioni Goldberg
dell’incomunicabilità umana tra gli scenari estremi e poetici della bassa emiliana,
è stato anche capace – con lucida genialità – di emanciparsi dal suo tratto ormai codificato, sviluppando, per le pellicole a seguire, nuovi temi, nuovi
linguaggi, nuovi codici visivi. Così, se “L’avventura”,
“La notte” e “L’eclisse” sono praticamente lo stesso film, pellicole come “Il deserto rosso”, “Blow up” e “Professione Reporter” sono invece completamente differenti e lo sono sia rispetto ai
primi lavori, sia tra di loro: girare “Zabriskie point” allo stesso modo dell’”Il grido”, semplicemente perchè la formula aveva funzionato, forse
sarebbe stato più comodo per il regista ferrarese, ma anche profondamente
sbagliato e ottusamente presuntuoso. Il pubblico è scemo, ma non
così scemo. E c’è un motivo se Guy Ritchie non sarà mai Tarantino.
Ora, il buon McQueen ha costruito i suoi primi lavori imperniandoli sul suo
efficacissimo e straordinario stile, costruito sulla brutale fisicità dei suoi eccezionali
interpreti, giocato su lunghissime sequenze spinte al limite
dell’intollerabilità, in cui il racconto si legge più sui volti e sui corpi
degli attori, che sulle trovate di sceneggiatura. A McQueen non fotteva una minchia delle ragioni politiche di Bobby
Sands. Nel suo tostissimo “Hunger” il
regista inglese non si è certo sprecato a spiegare dettagliatamente le rivendicazioni
dell’attivista dell’IRA, né i suoi moventi o le origini del suo pensiero. Certo, le informazioni di base, in qualche modo, venivano anche fornite, ma quello che intrigava McQueen era piuttosto esplorare – in
itinere – il formarsi e lo svilupparsi di un’autentica ossessione. McQueen si occupa di anime, di animi,
di coscienze e di esistenze. Non racconta storie; non intreccia trame; non
gioca coi colpi di scena. Il suo sguardo non stacca mai dai suoi antieroi. Il
bravissimo Fassbender (suo attore feticcio) per due intere pellicole si è
immolato alla causa, lasciandosi brutalizzare dallo sguardo morboso del suo
regista, fino a trasformarsi fisicamente, prima ancora che attorialmente, nel
personaggio dello script.
McQueen usa gli attori come lo scienziato usa i topi da
laboratorio. Li cala in un ambiente ostile, li sfinisce psicologicamente e
fisicamente, ne studia al microscopio le azioni e le reazioni. Non indaga i
loro moventi, se ne frega di chi siano e di cosa li abbia fatto diventare
quello che sono. Gli interessa solo analizzare il percorso evolutivo delle loro
ossessioni mentre deflagra nella loro coscienza. Vivere per anni senza lavarsi,
in un ambiente di due metri per tre, cospargendo le pareti della propria stessa
merda e rinunciando al cibo fino a morirne, per McQueen non è (solo) un atto politico (o, almeno, non come lo
sarebbe per un Ken Loach qualsiasi), ma prima
di tutto uno stato esistenziale che affascina e rapisce IN QUANTO TALE. I primi
film di McQueen mi hanno ricordato
molto “Martyrs”, straordinaria e
sottovalutata pellicola in cui la repulsione dello sguardo arriva addirittura
ad incantare, inchiodando lo spettatore ad una visione di orribile meraviglia e
di insostenibile attrazione, durante ed alla fine della quale non ci si può non
interrogare sulla responsabilità e sul senso dello sguardo.
Ecco, gli eroi di McQueen, più ancora che vittime di mere
ossessioni o di singolari patologie, mi ricordano dei moderni màrtiri, il cui
estremismo folle è quanto di più simile ad una novella e malata ricerca di trascendenza.
O, quantomeno, di senso. Bobby Sands (“Hunger”)
e Brandon (“Shame”) sono come i santi
arsi in graticola e torturati a morte. Solo che il regista non li giudica mai dal punto
di vista morale, non li analizza psicanaliticamente, non li studia
antropologicamente. A McQueen
interessa raggiungere assieme a loro il limite estremo. Per scoprire, una volta
raggiunto, cosa vi si trovi… La morte e la pace, per Bobby Sands… forse la
salvezza per Brandon… ribadisco: i film di McQueen
sono come agiografie malate ed estreme, concentrate non tanto sulle azioni del
santo, quanto sul suo martirio. Fino a che profondità è lecito spingersi per
definire se stessi? Fino a che punto è lecito guardare? E cosa c’è in fondo al
cammino?
Questo è il Cinema di McQueen. Mostrare la via crucis del
martire. Non i suoi moventi o le ragioni della sua fede.
Ed eccoci a “12 anni schiavo”. Ancora una volta, lo stile prevarica e sovrasta
la narrazione. La storia vera, o verosimile, di Solomon Northup viene
raccontata attraverso lunghissime sequenze in cui il germe della schiavitù
spiega i suoi brutali effetti sugli uomini. La macchina da presa indugia a
lungo sulle carni martoriate dai colpi di frusta, sui volti tumefatti dal
pianto e dal dolore, sui corpi esposti come merci al mercato… a contrastare il
tutto, giganteggiano le magnifiche location dei territori sudisti: giardini
curati come gioielli, splendide case coloniche, una natura solare e rigogliosa;
un autentico tripudio di colori brillanti ed incantevoli.
Eppure, questa volta, il trucco
non riesce. Già, perché il film non racconta – come al solto – di ossessioni e
martìri, bensì mette in scena una storiona pesissima, con intenti
dichiaratamente politici e topoi
tipici del cinema drammatico più canonico (rottura dell’ordine costituito, violenza,
disperazione, adattamento, speranza, salvezza).
La storia è quella dell’uomo libero
Solomon Northup, che venne drogato, rapito e venduto come schiavo ai
latifondisti bianchi della Georgia.
La schiavitù di Solomon durò
dodici interminabili anni, al termine di quali riuscì a ritrovare la perduta
libertà, la propria famiglia e pure il tempo di scrivere un libro sulle proprie
tremende avventure. Dodici interminabili anni durante i quali sperimentò la più
ottusa brutalità dei bianchi, l’indifferenza e la solitudine degli altri
schiavi, la violenza la stupidità degli
uomini.
Ecco, se decidi di volermi
raccontare una storia così, costruendola sulla palese e tremenda ingiustizia che
ne sta alla base, devi farlo come si deve. E ci sono un sacco di possibilità: puoi farlo
in modo un po’ retorico e classicheggiante alla Ron Howard, oppure spingendo il pedale sul sentimentalismo più melenso
alla Spielberg o, ancora, scegliendo
di indignare e scuotere lo spettatore come in un qualunque film di Sheridan…
Ma, con una storia del genere, lo
stile McQueen non funziona affatto.
Perché la visione non indigna quanto dovrebbe; non emoziona quanto meriterebbe;
non commuove quanto potrebbe. Non ci arrabbiamo mai veramente. Non urliamo. Non
battiamo piedi e mani. Non ci immedesimiamo fino in fondo nel protagonista e –
in verità – non ce ne frega mai un cazzo della fine che farà (anche perché
sappiamo già che – essendo una storia vera o, quantomeno verosimile – in
qualche modo porterà a casa la pellaccia).
Il problema di fondo, per McQueen, è che Solomon Northup non è
interessante come Bobby Sands (per McQueen, ribadisco, non in generale). Non ha ossessioni da alimentare o fantasmi da
combattere. Non cerca se stesso, né un senso a quello che gli accade. Non è un
màrtire che si nutre delle proprie ossessioni per trovare un senso alla propria
esistenza e una definizione della propria identità. È un povero diavolo che ha
subito il peggiore dei torti e che lotta disperatamente per sopravvivere; tra
l’altro, facendo di tutto per non riuscirci.
Già, perché McQueen è sicuramente un artista della madonna, ma è un pessimo storyteller.
Non ha i tempi cinematografici di un Sergio Leone, la ruvida epicità di un Eastwood
o la linearità di un Soderbergh… Non
ha nemmeno la granitica solidità di un Fincher
o il professionale mestiere di un Emmerich.
McQueen sa girare da dio - è indubitabile - solo che stavolta mette il suo incommensurabile
talento al servizio di un film in cui sbaglia quasi tutto e in cui cade in ogni
trappolone retorico.
Non amo i film in cui ci sono i
buoni ed i cattivi (a meno che non siano degli action con le mazzate). Addirittura
li odio se hanno la pretesa di essere film dichiaratamente “politici” ed “impegnati”.
E da un regista nero, inglese, che decide di girare un film sulla schiavitù in
America… beh, qualcosa di molto politico non posso non aspettarmelo. Già la scelta di fare un film del genere è un atto politico in senso stretto. Solo che
non mi frega un cazzo dei film in cui i nazisti parlano con la "t" al posto della "v" e sono malvagi per natura, in
cui gli arabi sono solo dei fanatici assassini e in cui i comunisti mangiano i
bambini a colazione. Con questo non voglio assolutamente dire che McQueen doveva girare il proprio film
sostenendo che i neri si meritavano di essere schiavi e che i latifondisti
della Georgia erano tutti degli stinchi di santo. Dico solo che, oramai, anche
l’ultimo dei bifolchi cerebrolesi che gira per i campi della Louisiana con un
cappuccio in testa dando fuoco a tutte le croci che incontra si è ormai convinto
che la schiavitù NON sia stata una buona cosa. Magari pensa che i “negri” siano
buoni solo se impalati, ma non si sognerebbe mai di pensare che sarebbe figo andare
al mercato a comprarne un paio. Per cui il film, tutto sommato, serve molto a poco.
“12 anni schiavo” ci racconta con grande enfasi la storia dell’acqua calda. So già che
questa mia affermazione solleverà un putiferio di polemiche: ma come, direte, voi, la schiavitù in America è una ferita ancora
aperta… ci sono pochissimi film dedicati all’argomento… McQueen, finalmente,
restituisce dignità alla Storia… bla bla bla.
Primo: questo film l’ha girato un
nero-intellettuale-pluripremiato-videoartista-britannico che gli ha fatto fare il
giro dei Festival di tutto il mondo. Non uno sconosciuto mestierante di Hollywood
per farlo andare in onda il pomeriggio di Natale alla multisala del mole in
centro.
Secondo: in questo film, l’analisi
storica e la rappresentazione che ne segue sono talmente di grana grossa che
sembra una produzione di Rai2, e di quelle peggiori (se mai ne esistessero delle migliori): da una parte i bianchi, che
sono stronzi, malvagi e cattivi; dall’altra gli schiavi, che sono buoni,
intelligenti e capaci. La schiavitù è una brutta cosa; per fortuna tra gli
uomini bianchi ci sono anche i Brad Pitt che sono biondi, belli, buoni e bravi
e che con il loro coraggio ed altruismo hanno saputo sconfiggere la schiavitù. Mi sembra un’analisi
del menga, che non ci dice nulla di interessante e che non approfondisce in
alcun modo un tema che per millenni ha purtroppo contraddistinto la storia dell’uomo.
Da uno come McQueen
mi sarei aspettato un film completamente diverso e, soprattutto, domande e dilemmi assai più
interessanti (anzi, mi sarei aspettato degli interrogativi tout court visto che il film non ne pone alcuno): cosa spinge un
uomo a considerare merce un altro uomo? È solo un fatto culturale? O c’è di
più? È qualcosa che appartiene intrinsecamente all’animo umano, oppure è un mero
fenomeno storico, destinato a non ripetersi mai più? Potremmo tutti, in dati
contesti e condizioni sociali, essere nel profondo razzisti e schiavisti,
oppure esiste un alito di coscienza dentro l’animo umano capace di impedire
alla maggioranza di noi di comprare un altro individuo e trattarlo come merce.
E se questa coscienza esiste, perché la schiavitù è durata così a lungo nella
storia dell’umanità? Ed ancora, è veramente finita o ha assunto semplicemente
altre forme e altri nomi? Io sono un cretino e così, su due piedi, mi sono venuti
fuori questi quattro retorici e banali interrogativi (che sono comunuqe di più di quelli posti dal film). Ma da un regista che viene conteso dai festival più
importanti del mondo e che è stato sul tema per mesi,
mi sarei aspettato tutto quello che il film non ha saputo essere.
Insomma, mi sono ritrovato a
vedere un prodotto molto ben confezionto, ma tutto sommato poco interessante, bellissimo
visivamente, ma intellettualmente manicheo e drammaturgicamente imbarazzante.
Ci sono fin troppi buchi di
sceneggiatura, questioni che non tornano, deviazioni di trama che non si
spiegano.
I caratteri dei personaggi
principali sembrano tagliati con l’accetta (ci sono i buoni, ci sono i cattivi,
terzium non datur). Non è vero: ci sono i buoni, ci sono i cattivi e poi c’è
Brad Pitt.
Soprattutto, il film procede a
tentoni. McQueen è talmente preso a
specchiarsi nella bellezza delle proprie immagini che, un po’ troppo spesso, si
dimentica pezzi di storia per strada. La narrazione inciampa, arranca, si
incarta. I personaggi fanno le cose a caso. Cambiano opinione e stato d’animo
senza ragioni apparenti. Solomon vuole sopravvivere, ma non ne combina una
giusta. Si fa cacciare come un pirla dall’unico padrone bianco con un minimo di
cuore. Ha un talento naturale per inimicarsi qualsiasi bastardo aguzzino che si
trovi a passare per caso nel suo raggio di azione. E quando finisce fra le
grinfie del perfido Epps (Fassbender) che ti combina? Si lega emotivamente alla
sua schiavetta favorita facendolo incazzare come una bestia. Ma dico, sei scemo? Viene descritto come
intelligentissimo e abilissimo, sa leggere e scrivere e pure suonare da dio il
violino, ma non riesce ad inventarsi mezzo trucco per far partire una lettera
dando notizia di sé ai famigliari. In dodici anni! durante i quali ha comunque
sufficiente spazio di manovra per andare TUTTO SOLO avanti ed indietro per i
campi della Georgia. Nel film succedono cose senza senso. Perché tutta la
tiritera di lui che va a consegnare le lettere per la moglie di Fassbender, se
poi ciò non porta a nulla di drammaturgicamente interessante? Adesso non voglio
stare qui a fare l’elenco di tutte le cose che non quadrano, ma il punto è che
ce ne sono un botto e che alla fine, per far quadrare il tutto, si risolve la
questione grazie ad un mormone che passava di lì per caso… Cazzo, è mai
possibile che in due ore e passa di film in cui hai provato a raccontarmi un
personaggio come motivato a sopravvivere, voglioso di tornare a casa,
intelligente come pochi e talentuoso in tutto, mi risolvi il film grazie ad
una merenda con un mormone di passaggio…? e ancora, è mai possibile che nessuno si
sia indignato di fronte a Brad Pitt che finanzia e produce un film in cui
l’unico bianco meritevole ed eroico è LUI?
Il problema vero di questo “12 anni schiavo” è che è NOIOSO. E non ho nulla contro i film noiosi. Ne ho visti un sacco. Ma qui la noia è un difetto. Non serve a nulla. È come un cellulare che squilla al cinema: semplicemente, rompe i coglioni. McQueen non è a proprio agio con la narrazione tradizionale. Non è grave. Basta non fare polpettoni sulla schiavitù col solito bovero negro maldraddado e sfruttato dal bieco badrone bianco e continuare a fare film di gente che si caga in faccia e che si scopa anche il bicchiere del limoncello.
Fidati, caro Steve, i secondi
sono molto più nelle tue corde.
GIUDIZIO SINTETICO: Cornice e confezione sopraffina, ma il
contenuto è come quello dell’uovo di pasqua. Una delusione. Fassbender
giganteggia in un personaggio che, per colpe non sue, risulta sempre troppo
monodimensionale. Brad Pitt si deve vergognare!
VOTO: 6
Io invece l'ho trovato il migliore di McQueen.
RispondiEliminaHa unito l'autorialità al gusto mainstream, e non mi ha neanche annoiato! ;)
@James Ford
RispondiEliminaE' il bello del Cinema... quello che piace a me, non è detto che piaccia anche agli altri e viceversa... Però devi darmi atto che autorialità (nelle forme in cui la esterna McQueen, che è roba molto diversa dal cinema di uno Scorsese o di un Coppola, che sono molto più appetibili e masticabili per il grande pubblico) e mainstream mi sembrano un po' un ossimoro... ripeto: de gustibus! Benvenuto nel Blog
Ho trovato il tuo blog e lo sto scoprendo con piacere. Le tue recensioni sono accurate, almeno su i film che hai scelto di recensire, e mi sembrano anche oggettive. Questo film mi è piaciuto, e come te concordo sul fatto che hanno inserito qualche buffonata di contorno che era risparmiabile, tuttavia il senso del film e ciò che muove gli eventi è molto reale e intenso. Nel sunto, il film mi è piaciuto e anche l'interpretazione dei protagonisti!
RispondiEliminacmq chiedo scusa, la recensione era per il film "warrior" e sbadatamente l'ho lasciata sotto "12 anni schiavo".
RispondiEliminaCiao Michi, benvenuto nel blog. Sul genere "Warrior" ho visto recentemente un film che si intitola "Wolf"... se ti capita, può essere una visione interessante.
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