25/01/16

THE REVENANT (di Alejandro Inarritu)



Premetto che la recensione contiene un sacco di SPOILER; chi non ha ancora visto il film prosegua a suo rischio e pericolo. 

"The Revenant" parte col botto! Le prime due sequenze ho dovuto riguardarle tre volte per poter accettare il fatto che non stavo sognando. La scena dell'attacco indiano è costruita su tre o quattro lunghissimi piani sequenza che ci schiaffano, di prepotenza, al centro dell'azione: inermi rispetto alla furia che ci incalza e del tutto incapaci di comprendere cosa diavolo ci stia venendo addosso. Già, perché piove letteralmente di tutto, da tutte le parti: di fronte e alle spalle, dal cielo e dai lati. Non c'è rifugio, riparo o possibilità di difesa. La scena è lunga e girata con sinfonica precisione. Ma il piano sequenza (diciamo, la somma dei piani sequenza), a 'sto giro, non è solo manierismo stilistico. La riduzione degli stacchi al minimo sindacale non serve solo a farci vedere quanto cazzo è bravo l'operatore di Inarritu e quanto geniale Lubezki. La stessa sequenza, con un maggior impiego del montaggio, avrebbe reso altrettanto bene e, forse, addirittura meglio, in termini di velocità, di adrenalina e di tensione, ma ci avrebbe inevitabilmente portato al di fuori dell'azione. Montare venti scene di corpi che cadono straziati, in successione tra loro, è un modo efficace per raccontare un massacro; ma il piano sequenza di Inarritu ci schiaffa di prepotenza proprio AL CENTRO di quel massacro; Inarritu non si limita a raccontarci un attacco indiano, ce lo fa vivere in prima persona. La macchina da presa diventa l'estensione del nostro sguardo, dei nostri occhi, che non sanno più dove guardare, perché tutto intorno è morte, sangue, deiezioni e lacrime. Ogni movimento di camera diventa un nostro movimento; il movimento di chi non sa più dove andare e dove scappare, perché ad ogni passo, in ogni direzione e in ogni dannato istante qualcuno gli cade di fianco, davanti o di dietro. SIMULTANEAMENTE. Il piano sequenza orchestrato da Inarritu e Lubezki ci mostra che la testa di tizio esplode a dieci centimetri dalla mia; che caio, un istante dopo, viene trafitto subito dietro le mie spalle; mentre tutto intorno a me brucia, esplode e viene avvolto dal fumo degli spari. La gente muore-combatte-lotta-cade-e scappa da tutte le parti CONTEMPORANEAMENTE e la mancanza di stacchi di camera ci affonda con tutto il peso della durata dell'attacco, ci restituisce un senso di caos primordiale e ci rende inermi perché incapaci di organizzare lo sguardo. Non sono solo le pugnette di chi si sente il più bravo della classe. E' Cinema, signori miei, nella sua più alta espressione.



Credo che pochi registi al mondo siano in grado di concepire e per giunta realizzare una roba del genere. Ci sono uomini che muoiono, che lottano, che fuggono, che piangono; che uccidono con fucili, pistole, archi, frecce, coltelli, pietre, asce, bastoni, a mani nude... è qualcosa di animalesco e selvaggio; è la mattanza dei tonni, è la grande caccia al bisonte. Solo che tonni e bisonti, questa volta, sono dei poveri stronzi andati a cacciare pelli nei boschi del Nord Dakota.

Inarritu riesce a dare forma al caos, a restituire l'emozione attraverso l'azione pura. Sembra la scena iniziale del soldato Ryan, ma con molta più fotta, più paura, più delirio. Qui non c'è una posizione da difendere e una da conquistare. Non ci sono buoni e cattivi. Qui l'attacco arriva da tutte le parti, a 360 gradi, a piedi e a cavallo, con frecce e pallettoni, dalla terra e dal cielo... è pura brutalità. E' bellissimo!

E poi c'è la scena dell'orso! Chiunque abbia visto il trailer sa che prima o poi arriverà la scena dell'orso. E, quando arriva, anche se la stai aspettando, anche se è telefonata come gli auguri a Natale, anche se sei pronto.... BUM !!!!!! Quella scena è cla-mo-ro-sa. DiCaprio viene letteralmente divorato, sbranato, divelto e violato da un gigantesco grizzly. L'orso infierisce nelle sue carni; lo morde, lo graffia, lo sbalza a destra e sinistra, lo calpesta, lo annusa, lo assapora... tutto questo una volta, due volte, tre volte... è una scena lunghissima, impietosa, disperata; ogni volta che la furia dell'animale sembra essersi finalmente placata, si riaccende sempre più violenta e rabbiosa. Se non avessi visto DiCaprio vivo e vegeto alla serata di premiazione dei Golden Globe, avrei potuto giurare che - per fare prima - Inarritu avesse impiegato un vero grizzly per girare la scena... scusa, Leo, senza rancore eh...

Di solito non mi dilungo così tanto sulle singole scene di un film, ma raramente mi era capitato di assistere a due bombe del genere. Per giunta, praticamente una di seguito all'altra. E nei primi trenta minuti. 

Eppure, nonostante tutta questa esaltazione, una domanda sorge spontanea: ma ci piace davvero questo Nuovo Cinema Muscolare fatto di attori che si sottopongono a prove fisiche devastanti e che, più che recitare, vengono chiamati, come soldati alle armi, ad immolarsi e a sacrificarsi per la causa? Pensate a DiCaprio, che, durante le riprese, si è dovuto infilare nudo nella carcassa di un cavallo, ha mangiato il cuore crudo di un animale (o il fegato, non mi ricordo) e si è immerdato di fango, sudore e sangue per quasi tutta la durata del film; E pensate a Tom Hardy, che, forse, costituisce il massimo campione di questo nuovo cinema di corpi e di prove fisiche estenuanti; un attore che personalmente trovo superlativo, ma che ha da tempo superato il concetto stesso di recitazione, per arrivare ad una sorta di nuovo linguaggio espressivo fatto di spasmi corporei, grugniti, scrollate di spalle, di scatarrate e gorgheggi; un attore capace di prendere trenta chili di massa e ridurre il suo grasso corporeo al 4% per fare "Warrior" e poi ingrassare come un bovino per diventare il fornaio dei Picky Blinders. Ma è la moda del momento: McConaughey che dimagrisce fino quasi a morire per girare "Dallas buyers club"; lo stesso dicasi per Fassbender in "Hungher" o Matt Damon in "The Martian", per non parlare di Christian Bale che, nel giro di tre mesi, passa dalla condizione di anoressico ("L'uomo che non dorme") alla possanza fisica iperproteica del Batman di Nolan. Cazzo, addirittura Tom Trottolino Cruise alla tenera età di 54 anni ha dovuto metter su un telaio che non aveva neanche a 20 per girare pericolosissime scene, senza controfigure, attaccandosi per-sul-serio alla portiera di aereoplani in decollo... Possibile che un attore debba arrivare a rischiare di morire di stenti per interpretare un affamato? O trasformarsi in un autentico selvaggio per potere risultare credibile a vestirne i panni? Dove finiscono i meriti e la capacità di recitazione e dove inizia la pura e semplice simbiosi? Ovvio che questo non sia un discorso assoluto e che esistano centinaia di eccezioni. Ma è un fatto che il Cinema stia diventando sempre più fisico, estremo e pericolosamente attento a sembrare quanto più realistico possibile.

Chiariamoci. Di per sé non c'è nulla di male. Cavoli, pensate a cosa chiedeva Herzog ai suoi attori e alle sue troupe. O cosa ha preteso Coppola, giusto per citare i primi due che mi vengono in mente. Tuttavia, il fatto che questo processo si stia diffondendo quasi più nel cinema mainstram che in quello autoriale, mi induce a guardare il fenomeno con un certo sospetto.

Ho come l'impressione che il Cinema, da un lato, si sia scoperto obsoleto e inadeguato a competere con una Realtà che è diventata molto più spettacolare e allucinante della migliore fiction e, dall'altro, abbia una paura matta di essere surclassato dalle infinite possibilità offerte dalla computer grafica e dai miracoli della post-produzione, che, negli ultimi anni, hanno raggiunto vette inimmaginabili.

Forse Herzog ha peccato di ùbris, ma sono fermamente convinto che la sua sfida all'intero sistema produttivo, ai limiti umani e al concetto stesso di finzione cinematografica fosse pienamente giustificata da ragioni artistiche ed esistenziali. Herzog ERA Fitzcarraldo e le due imprese (girare quel film in quelle condizioni e portare l'Opera in Amazzonia) DOVEVANO essere simbiotiche. Il film di Inarritu, al contrario, non mi sembra che nasca da chissà quali esigenze esistenziali, ma mi sembra più la narcisistica espressione di chi voglia far vedere a tutti chi è il primo della classe.
Vista da questa prospettiva, la scelta di girare in luoghi impossibili, sottoporsi a prove fisiche estenuanti e lavorare in condizioni di pericolo costante la trovo un tantino gratuita: il viaggio di Glass non ha niente a che fare con quello di Aguirre, di Fitzcarraldo e nemmeno di Kurtz. E non c'è niente di male, in questo. Solo che non capisco cosa giustifichi, nel film, un tale sforzo produttivo e un tale dispiego di energie psico-fisiche. Sono convinto che Kurtz non avrebbe potuto esistere e nemmeno essere concepito al di fuori e in assenza di quel folle, malato e anarchico contesto produttivo e di lavoro in cui Coppola aveva trasformato il suo set nelle Filippine. Non mi sento di pensare lo stesso del personaggio di Glass. Leo si divora un pesce crudo e si butta nudo nelle acque gelide di un fiume in pieno inverno? Figo, ma il suo personaggio avrebbe funzionato uguale anche in uno studio di posa a L.A. con petali di rosa per terra e stuzzichini al salmone nelle pause.

Ma perché il Cinema si sente così tanto inadeguato a raccontare la realtà al punto da doverla scimmiottare? Voglio dire... fino a ieri si andava al Cinema a sognare l'impossibile; ad assistere a scene pazzeschissime che, pure, risultavano credibili e meravigliosamente realistiche.
Oggi, invece, il cinema sembra sempre arrancare dietro una Realtà che l'ha da tempo sorpassato da destra. Telegiornali, internet, Youtube, Instagram ogni giorno ci bombardano con immagini sempre più crude, più violente, più drammatiche. Oggi la guerra è veramente nelle nostre case, sui nostri schermi. Sono saltati filtri, buon senso e, soprattutto, senso della misura e della decenza. Il cinema non riesce più a stare al passo. Per quanto la scena di un film di guerra sia di impatto, è nulla rispetto alle immagini vere di Kabul, dell'11 settembre, di Parigi, che ogni giorno ci riempiono la casella mail, i messaggi sul cellulare e la tv di casa... Il Cinema ha smesso da un po' di tempo di rappresentare la realtà e ha cominciato a scimmiottarla. Una volta, il Cinema incantava perché ci faceva credere nel prestigio senza mai farci pensare al trucco che c'era dietro; oggi, invece, sembra solo preoccupato a dimostrare ai suoi spettatori che il trucco non c'è affatto e che quelle immagini, per quanto incredibili, sono effettivamente vere.

Non sono qui per giudicare. Non mi interessa stabilire se fosse preferibile il cinema di ieri rispetto a quello di oggi. Non ne faccio un problema di valore e, tantomeno, di merito. Dire che il cinema di oggi non vale quello di ieri ha poco senso, perché ci sono in giro un sacco di registi della madonna e perché ogni autore si deve confrontare con i mezzi a propria disposizione. Se Herzog avesse avuto le macchine digitali tascabili e questa computer grafica, magari non avrebbe girato "Aguirre". Piuttosto, mi pongo un problema di moventi. Se Herzog avesse avuto le macchine digitali e questa computer grafica, che film avrebbe voluto fare?


Ecco perché "The Revenant", pur essendo girato da dio ed essendo un vero e proprio miracolo registico, fotografico e visivo, rimane un film che mi convince solo a metà. Perché tutto questo ben di dio e questo talento, alla fin fine, si spreca in una pellicola che non sa mai diventare veramente autoriale e che non ha nemmeno l'umiltà di rimanere fino in fondo nel genere. Sono convinto che se Inarritu abbassasse la cresta e mettesse da parte vocazioni impegnate e il complesso del genio, potrebbe essere il più grande regista action di tutti i tempi. Potrebbe diventare il Malik delle mazzate, il Kubrick del cinema di menare. Invece vuol fare l'esistenzialista, il politico e l'antropologo. Ma se nasci col braccio di Tyson devi tirare cartoni e non tenere corsi all'università...

Non date retta a chi vi racconta che "The Revenant" è un film sul conflitto tra l'uomo e la natura. Non c'entra un cazzo McCarthy e nemmeno John Williams. Certo, ci sono una sacco di paesaggi pazzeschissimi, di boschi selvaggi, di no man's land desolate e c'è pure un orso incazzato come un puma... ma questa non è la storia di un uomo che si contrappone alla natura. E del conflitto tra Civiltà e Wilderness non ce n'è neanche l'ombra.

Questa è la storia di un uomo che ne vuole ammazzare un altro. Punto. Non è l'Ulisse che valica le Colonne d'Ercole, ma quello che fa strage di proci. La storia di Glass - peraltro storia VERA, diventata nei secoli materia per canzoni, poesie e leggende -  non è quella di chi cerca se stesso nelle vastità sconfinate del creato. Il suo ritrovarsi solo e sperduto nel mezzo del Nord Dakota non nasce dal bisogno di un confronto con le forze primordiali ed elementali della natura; non ha nulla di mistico e nemmeno rappresenta un percorso di ricerca. E' lì perché gli servono pelli da vendere. I suoi problemi nascono da attacchi indiani, tradimenti di commilitoni e sentimenti umani. C'entra anche l'orso, ma le sue funzioni sono strettamente narrative e assai poco simboliche. Siamo agli inizi del 1800 e il progresso avrebbe impiegato ancora un bel po' ad arrivare, per cui non c'è nemmeno la storia dell'uomo che si addentra nella natura per vincerla e per provare a contenerla e dominarla. Glass non viene punito per la propria ùbris e la Natura è solo la meravigliosa ed annichilente cornice che fa da sfondo alla sua sfortunata e drammatica vicenda.

Quella di Glass, dunque, è la storia di una vendetta. La natura è solo l'ostacolo che si frappone tra il tradimento e la consumazione della sua punizione. Non è la meta, bensì il percorso; e, come abbiamo detto, qui conta solo la meta, mentre il percorso serve solo a rendere interessante il racconto e a ritardare l'epilogo. Non è un caso che il progetto, in origine, fosse stato affidato a Park Chan-wook, che, sul tema, ci aveva regalato un'intera trilogia, chiusa con quel capolavoro assoluto di "Old Boy". Qui, però, non aspettatevi piani diabolici e colpi di scena a profusione. Qui c'è solo Glass che vuole fare il culo a Fitzgerald. E riuscire a tenere viva l'attenzione per 156 minuti solo con questo, vuol dire saper fare il proprio mestiere. Non sono un fan incallito di Inarritu, ma dopo essersi un po' smarrito nello specchio incantato della propria bellezza, qui, finalmente, il regista messicano sembra essersi messo alle spalle il fantasma dell'amico-nemico Arriaga e dimostra di essere pronto per una nuova fase della sua filmografia, meno intellettuale e meno impegnata, ma molto più interessante ed orientata al genere. Speriamo che regga.


Il film non è però esente da difetti; soprattutto le cadute in un certo misticismo da quattro soldi, con tanto di visoni oniriche e flashback ovattati. E' in questi momenti che Inarritu dimostra di non aver ancora fatto completamente il grande salto. Sono immagini, alla fin fine, del tutto gratuite e inutili, che spezzano il ritmo e affievoliscono la tensione, senza portare alcun contenuto degno di valore. Non servono al racconto e non aggiungono alcuna informazione rilevante. Semmai, sembrano messi lì per attenuare leggermente la crudezza del messaggio principale, quasi che fosse troppo cinico e spietato per poter essere digerito dal grande pubblico. O per creare spessore ad un personaggio che, per tutto il resto del film, viene descritto con un solo livello di profondità: l'odio. Perché l'unica domanda che pone il film è tanto semplice quanto devastante: cosa permette ad un uomo di sopravvivere all'assalto di un grizzly? di resistere alle intemperie dell'inverno del Nord Dakota, con la neve che cade incessante e il freddo che penetra nelle ossa? Perché rialzarsi dopo ogni morso, dopo ogni squarcio, dopo ogni colpo...? Cosa spinge un uomo a non lasciarsi morire quando la morte sarebbe la cosa più vicina ad un premio di consolazione, piuttosto che una condanna?

Semplice: la vendetta.

Glass è stato tradito e abbandonato e vuole il suo pegno di sangue. La storia è tutta qua: da una parte DiCaprio che, martoriato nell'animo e nel corpo, rimanda l'appuntamento con l'Inferno fino al tempo della sua vendetta; dall'altra Tom Hardy, abbruttito e selvaggio, pronto ad uccidere, tradire, abbandonare compagni, amici, commilitoni. Entrambi vogliono disperatamente sopravvivere: alla guerra, agli attacchi indiani, al freddo, alle ferite, alla fame, agli orsi e alle intemperie. Ma la vendetta costituisce un movente troppo forte e, in suo nome, si compie l'impossibile. Inutile spoilerare sulle incredibili vicissitudini che DiCaprio dovrà affrontare prima di potersi finalmente trovare faccia a faccia con la propria nemesi. Quello che conta è che l'odio, talvolta, può essere ancora più forte e più potente della vita stessa. Cosa c'azzecchino i flashback onirici e le visioni poetiche di malikiana influenza me lo dovete venire a spiegare...




GIUDIZIO SINTETICO: Forse, un tale capolavoro di messa in scena avrebbe meritato temi e tematiche più nobili. Oppure, mio sogno bagnato personale, un action puro e semplice tirato in lungo per due ore filate. Ma il risultato è comunque straordinario

VOTO: 7+ 






2 commenti:

  1. Condivido al 100%. E aggiungo che quando Di Caprio, non se, quando, vincerà l'Oscar lo vincerà per un film praticamente muto. In pratica sarà come dare l'Oscar ad un partecipante di Survivors. Ma tant'è.
    Primo tempo molto bello davvero, anche se la storia è debole forte. Secondo tempo, invece, abbandonato ad una confusa ricerca del sè che si sostanzia solo nella prestazione fisica e registica. Gli ultimi 30 minuti, poi, sono abbastanza tremendi e poco logici (così come i tempi in generale, vedi guarigione di Di Caprio non in sintonia con il viaggio di ritorno degli altri). E l'ultimo minuto distrugge il film, letteralmente.
    E' un buon intrattenimento. Non è molto di più. E va bene così, ma con un po' di onestà intellettuale in più, con l'ammissione che di cinema action si tratta e non di film "de filosofia", forse saremmo stati di fronte ad un piccolo capolavoro di genere. Caro Leo, se non lo prendi stavolta sono davvero cazzi tuoi!

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