03/03/16

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT (di Gabriele Mainetti)





Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, sentenziava quel vecchio saggio di Bertolt Brecht nella sua bellissima “Vita di Galileo”… però, forse, è il caso di aggiungere che, ancora più sventurata, è la terra che non ne ha più bisogno.

L’eroe serve a salvare l’umanità che non riesce, non vuole o non sa farlo da sola. Se fossimo tutti coraggiosi, coerenti e saggi, sicuramente non ci sarebbe bisogno di salvatori della patria ed il mondo sarebbe un posto migliore. Da qui la sventura che nasce dal bisogno di eroi.

Forse.

Però ho anche l’impressione che una società senza eroi sarebbe anche una società estremamente noiosa; sicuramente più efficiente, ma molto meno interessante; certamente più proba, ma anche meno libera; Senza eroi, probabilmente, non ci sarebbe bisogno del coraggio, del sacrificio e dell’altruismo. Se tutto fosse già perfetto… perché sbattersi? Soprattutto, se non ci fosse il male, la stupidità e l’egoismo degli uomini, non ci sarebbe il problema di dover pagare il prezzo che costa scegliere il bene, l’intelligenza e l’altruismo… e se non si sceglie, alla fin fine, si è schiavi.
Non importa quanto siano d’oro le sbarre, stiamo sempre parlando di gabbie.

Non sono affatto convinto che il migliore dei mondi possibile sia veramente il migliore dei mondi possibile. Credo che se raggiugessimo mai tale livello di perfezione, semplicemente, non avremmo più voglia di andare a vedere cosa c’è oltre; cosa c’è dopo; cosa c’è invece. Credo che di eroi ci sia un fottuto bisogno, come c’è bisogno di leggi, di un codice morale e di modelli etici. E non perché regole e modelli debbano essere rispettati e seguiti a tutti i costi, ma perché chiunque possa decidere di stare dentro, al di sopra o al di là di questi modelli di riferimento. Perché si possa scegliere di ubbidirvi o di metterli in discussione. Violarli o difenderli. Se tutti fossimo buoni, non ci sarebbe alcun merito. Saremmo come pecore che seguono il cammino prestabilito senza farsi domande. Magari, così facendo, non finiremmo mai nel burrone o in pasto ai lupi… ma che vita di merda!!!


Mi piace, invece, chi si fa delle domande e mi piace che esista la possibilità di deviare dal cammino prestabilito, di scartare di lato e cadere (come cantava De Gregori), di non essere solo una pecora virtuosa. Sono immensamente contento che esista un sistema di regole e un comune senso della morale, ma sono ancora più contento che esista chi, ogni giorno, si diverte a infrangere il primo e violare il secondo. Questa cosa si chiama libertà; si chiama possibilità di scelta; si chiama coscienza. Chi decide cosa è giusto? Chi controlla i controllori? Chi determina il percorso del gregge? E chi stabilisce se il mondo sia veramente il migliore possibile? Io voglio che esista sempre un Galileo a ricordarci che, solo perchè siamo tutti d’accordo che la terra è piatta e al centro dell’universo e se pure ce lo conferma dio in persona, non è affatto detto che abbiamo ragione.

È vero, Galileo non fu mai eroe. Ci provò, ma non ce la fece. Aveva la Verità in tasca, ma scelse di rinnegarla e risparmiarsi il rogo. Ma sapete una cosa? ad essere sincero, gli eroi senza macchia e senza paura mi stanno un po’ sul cazzo… trovo molto più stimolanti e simpatici i poveri cristi che provano ad esserlo.
Come cantava il Duca bianco, voglio essere un eroe, anche per un giorno soltanto.
Perché ambire ad essere eroe implica la consapevolezza di non esserlo, implica la presa d’atto di essere migliorabile e la presa di coscienza di volersi impegnare a farlo. Ed è questo anelito, questa ambizione e questa spinta al miglioramento che ci qualifica. Non voglio il miglior mondo possibile. Voglio infiniti mondi, ognuno un po' migliore del precedente. Gli eroi non servono a salvare il mondo. Servono ad ispirarlo. Per questo una terra che non ha bisogno di eroi, è una terra che mi mette tristezza. Perché non ha ambizioni, non ha speranze e non crede di poter migliorare.
Una società che non ha bisogno di eroi, è una società di Verità assolute, certezze consolidate e valori immutabili. È un posto in cui non voglio vivere.


Io mi iscrivo alla classe degli imperfetti, dei pusillanimi e sto con la massa degli stronzi. Spero che esista, da qualche parte, un eroe che sia migliore di me ed in grado di ispirarmi. Non voglio essere quell’eroe. Voglio vivere per cercare di assomigliarli. È molto diverso.

I supereroi mi hanno insegnato che da grandi poteri derivano grandi responsabilità; che il motivo per cui cadiamo è quello di imparare a rialzarci; che, il più delle volte, quello che ci rende eroi ci rende anche diversi e molto più soli. Fortunata la terra che ha degli eroi; e, ancora più fortunata, è la terra con tanta gente che sogna di diventarlo! Gente disposta a pagare il prezzo di andare contro corrente, di dire cose scomode, impopolari e socialmente sconvenienti. Magari non sempre… un po’ alla volta… a piccoli passi…  Galileo abiurò se stesso per salvare la pelle. Ma ha anche messo in discussione il Sistema, minato la credibilità della Religione, sfidato la Morale e la Scienza del suo tempo. Ha dimostrato che Dio e il suo bestseller si sbagliavano di grosso. Cazzo, magari non era un eroe, ma ha avuto due bei coglioni lo stesso. No, Galileo non è mai stato Batman… ma è stato uno splendido Joker!!!

Ribadisco: c’è un fottuto bisogno di eroi, ma non troppi. L’assumersi il peso di salvare l’umanità è anche figlio della convinzione di esserne migliore. L’eroe, il più delle volte, non viene investito del ruolo, ma se lo carica sulle spalle. È per questo che una società dove sono tutti eroi è una fantasia un po’ fascista e troppo conservatrice per i miei gusti.

Ed è qui, in un certo senso, che entra in gioco “Lo chiamavano Jeeg Robot”, lo spaghetti comic in salsa amatriciana di Gabriele Mainetti. Il suo eroe non solo non ne vuole un cazzo di investiture morali, ma non si sente sicuramente migliore di nessuno. È un eroe moderno e originalissimo, perché scopre l’eroismo che ci vuole ad ammettere di essere piccoli e mediocri e di voler cominciare a fare qualcosa al riguardo. Facile venire da Kripton, avere la pelle d’acciaio e la supervista. Provate ad essere un fragile ed insicuro panzone di Tor Bella Monica, nato e cresciuto tra torri di cemento fatiscenti, in mezzo a bagordi e delinquenti di ogni risma; nutrito, nel corpo e nell’anima, da yogurt alla vaniglia e pornazzi da edicola…

Mainetti, come fece Sergio Leone con il western, si impossessa di un genere totalmente appartenente ad un altro contesto sociale e culturale e lo sconvolge dal di dentro per dargli nuova linfa e nuovo vigore. Non è un caso che il “lo chiamavano” del titolo evochi espressamente la vecchia tradizione dei western nostrani (“Lo chiamavano Trinità”, “Lo chiamavano Tresette”) che tanto rivluzionarono il più americano dei generi cinematografici.
Nel comic movie di Mainetti non ci sono cowboy col cappello bianco che duellano con cowboy dal cappello nero. Ossia, non c’è il paladino del bene e della giustizia che si contrappone al campione del Male. Ci sono poveri cristi della periferia romana che si arrabattano tra furtarelli, rapine a mano armata e spaccio. Non ci sono grandi eroi. Non ci sono grandi responsabilità da assumersi, né grandi dichiarazioni di intenti.

Non ci sono tutine colorate, mantelli e costumi sgargianti, ma felpe col cappuccio tirate sul capo, canotte unte e giacche di pelle…  


Mainetti prende i comic americani, i manga giapponesi, Ranxerox e i fumetti di Andrea Pazienza e li butta nel frullatore tirando fuori un bel mischione iperproteico e saporitissimo.
Dai primi eredita lo schema formale: un evento accidentale dona forza, potere e volontà a qualcuno che deve assumersene la responsabilità. Dai secondi prende l’introspezione e il tormento… i giapponesi non la fanno mai facile. I loro eroi sono sempre disperati, un po’ tristi e portano sulle spalle sempre tutto il peso dell’esistenza. Dal fumetto di Tamburini-Liberatore eredita quel gusto per gli eroi che in realtà sono antieroi, per la violenza sfrenata, per i contesti periferici e per le classi più basse, tossiche e marce della società. Da Pazienza, infine, eredita l’amore per il linguaggio, per il dialetto, per lo stare sempre sopra le righe.

Solo che Mainetti ribalta l’assunto di base: non sono gli eroi che salvano il mondo; ma è vero il contrario. Enzo “Hiroshi Shiba” Ceccotti è un delinquente incazzato, solo, triste e povero come pochi. Passa le giornate a segarsi il cazzo davanti alla tele, guardando immondizia porno, ingurgitando yogurt e covando rabbia. La sua vita è divisa tra un furtarello e un lavoretto qua e là, sognando il grande colpo. Quando si ritrova invincibile e forzutissimo, il pensiero di diventare Batman e salvare il mondo non gli passa neanche per l’anticamera del cervello… col cazzo! la prima cosa che fa è  sfasciare una parete a cartoni per portarsi via un intero bancomat caricandoselo sulle spalle…

La colazione dei campioni!
Enzo diventa "Hiroshi" quando la gente inizia a credere in lui. Diventa l’eroe dei poveri cristi nei graffiti che ritraggono le sue imprese; diventa l’incubo dei delinquenti perché una povera disperata col cervello di una bambina gli dona il suo cuore. Si può provare a diventare eroi in tanti modi e per tanti motivi. Per Enzo, le responsabilità non derivano dai suoi poteri. Derivano dalla fiducia che gli altri gli regalano.

Le responsabilità nascono con la scoperta che qualcuno inizia veramente a credere in te. È l’amore di Alessia a creare in Enzo un senso mai provato di benessere. Non le conseguenze di un tuffo dentro un barile radioattivo.

Si può essere eroi perché si è perfetti e perché si è pronti a salvare il mondo. Ma si può provare a diventare eroi anche senza essere perfetti, anzi, essendo ben lontani dall’esserlo, ma solo perché c’è qualcuno che ci crede per te. Che se lo aspetta.

Enzo Ceccotti è il mio eroe preferito perché non si sente migliore degli altri… ha semplicemente voglia di sentirsi importante per qualcuno che ama. È la cosa più bella del mondo del mondo: migliorare se stessi per amore di qualcuno a cui tieni. Gli americani, probabilmente, non lo possono capire. Non capiranno mai che il fascino di Superman non è la sua super-forza; è il suo bisogno degli umani, che è addirittura superiore a quello che gli umani hanno di lui!


Mainetti gira un gran bel film. Non è un capolavoro; non è un Classico del Cinema e nemmeno un film destinato a cambiare il mondo. Ma, per dio, è un cazzo di FILM. Una roba che, da italiano, ti fa tirare un sospiro di sollievo, perchè finalmente non ti devi più vergognare ogni volta che vedi un film straniero o vai ad un festival internazionale del cinema. Altro che quella minchiata di “La grande bellezza”. Se quella di Sorrentino era una brutta cartolina fatta ad uso e consumo dei peggiori luoghi comuni a stelle e strisce sul Bel Paese, quella di Mainetti è invece una coraggiosa operazione di omaggio, senza alcun vassallaggio. Forse non è il massimo che sia un divertissement di genere a farci gridare tutti al miracolo. Con tutto il rispetto, sono altri i capolavori della nostra filmografia. Il problema è che vent'anni di cinepanettoni, di attori che sospirano in tinello e di gente che si mette dietro alla macchina da presa per raccontare storie che non interessano a nessuno, in modi che non interessano nessuno, ci avevano talmente abbruttiti nell'anima e nello spirito che il film di Mainetti, al confronto, ci sembra "Quarto Potere".

Mainetti, finalmente, è un giovane regista italiano che sa fare il suo mestiere. Che ama il cinema e, soprattutto, che si preoccupa di raccontare in un modo che risulti interessante. Mainetti guarda agli americani, ma conosce troppo bene la materia ed è troppo intelligente per cadere nel tranello di voler competere con loro sul piano degli effetti, dei botti e delle esplosioni. Rispetta il codice, ma preferisce concentrarsi sui personaggi, che sono vivi, veri, intensi. Mainetti dirige egregiamente i suoi interpreti e non si limita a farli sospirare e urlare a caso (ma perchè sono vent'anni che i nostri attori o urlano o sospirano?)… insomma, fa un film action della madonna, senza timori reverenziali, senza vergogna di fare genere e concedendosi pure il lusso di un montaggio pazzesco, di carrellate aeree che sembra di stare in un film di Mann e di cazzotti e pizze in faccia che sembra un film coreano o giapponese. Il gusto per la violenza e per il sopra-le-righe di alcune sequenze mi ha evocato addirittura certe robe di Miike e Shion Sono.


Solo che Mainetti è romano de Roma ed è figlio di un paese dove ancora a scuola si studia (non ho detto che si impara) anche il romanzo cavalleresco, la tragedia greca, la poesia dello Stil Novo, l’Iliade e l’Odissea. Magari non li ha manco letti. Ma il suo DNA sa che esistono. E quella roba lì fa tutta la differenza del mondo. Quella roba lì ti insegna che puoi fare tutto il genere che vuoi, che puoi buttarci dentro tutte le pizze in faccia e gli inseguimenti che ti pare, ma se vuoi fare un bel film ti ci vuole anche una storia che stia in piedi; ci vogliono dei personaggi che abbiano un'anima e che siano credibili; ci vuole il cuore, il sentimento e la passione. Mainetti costruisce un comic neorealista; tesse una dichiarazione d’amore per l’azione, per l’adrenalina e per le mazzate, ma lo fa senza cadere nella caricatura gratuita. Tutti i personaggi del suo film sono immensamente tragici, portatori di uno speen esistenziale che è talmente opprimente da annichilire tutto. Altro che la cartolina di Sorrentino. I sobborghi romani non sono un posto da turisti. Sono grigi, sporchi, tristi e avvilenti e divorano tutto ciò che gli sta attorno. L'umanità di Mainetti è un'umanità sanguinante, arrabbiata, disperata, ma viva, vera e ancora in lotta.

Perfino lo spettacolare e fin troppo sopra le righe personaggio dello Zingaro (un grandissimo Luca Marinelli) è un ritatto credibile, così schiacciato dalla propria profonda insofferenza per la propria aurea mediocritas e così disperatamente bisognoso di emergere, di farsi notare, di uscire dall’anonimato della periferia della propria anima. Che sia improvvisando "Un'emozione da poco" della Oxa in uno squallido karaoke di periferia e conciato come il Renato Zero della borgata o filmandosi al telefonino mentre disintegra una vecchia a calci e pugni, le azioni dello Zingaro non sono mai solamente gratuite. E sono sempre molto più che una semplice invocazione di aiuto. Sono una testimonianza. Una sorta di prova malata della sua effettiva esistenza. Sono il testamento disperato di chi brama attenzione, non importa a che titolo. Mi notate, quindi esisto. La generazione dei Grande Fratello, dei Reality Show e dei Social Network è, probabilmente, la generazione più sola, più abbandonata a se stessa e più omologata che sia mai esistita. Mainetti, probabilmente, non ci dice nulla di nuovo. Ma è il come ce lo dice che lo qualifica. Lo Zingaro-Marinelli è un Joker moderno, tragico e bellissimo nel suo provare a farsi beffe del sistema giocando al suo stesso gioco. È un cattivo estremo, totale, a tutto tondo; ma è anche il cattivo che scuote il torpore, che smaschera le logiche assurde della celebrità a tutti i costi, della visibilità senza meriti, dei talent show senza talento. Anche lui è un eroe necessario. Come lo è l’ingenua Alessia, interpretata proprio da una ex protagonista del Grande Fratello, che rappresenta la regressione culturale e intellettuale di una società che, pur avendo tutto, si ritrova con niente in tasca e in testa. Alessia ha bisogno di un eroe a cui credere per sopportare tutto il peso di una vita di merda che non ha fatto altro che colpirla; e a furia di credere nel suo eroe, di fatto, è finita col riuscire a crearlo.

Il Cinema Italiano che esce faticosamente dalla merda...
Mainetti, in culo a chi gli ha rifiutato finanziamenti, aiuti e appoggi, ha dimostrato che in Italia si può ancora fare Cinema, si può fare Genere e si può ancora girare un film con attori che recitano, operatori che sanno muovere la macchina da presa, fonici che sanno registrare e montare il sonoro e direttori della fotografia che non sappiano solo fare belle cartoline colorate. 
Mainetti si è autoprodotto il suo film, lo ha girato come cazzo voleva e ha stravinto la sua scommessa. Il cinema italiano, finalmente, si è rimesso a fare il cinema che lo ha reso grande (che non è solo quello dei Fellini e degli Antonioni, ma anche quello dei Corbucci, dei Bava e dei Leone). Non ci credete? Guardate i primi dieci minuti della pellicola... se non vi si strabuzzano gli occhi e non vi si riempie il cuore di gioia, siete delle brutte persone.

C'era bisogno di un film come questo come di aria nei polmoni. A prescindere dai gusti, dalle preferenze e dalle passioni di ognuno...

Sventurata la terra che non ha degli Enzo Ceccotti.

 
GIUDIZIO SINTETICO: Il miglior film di genere italiano da vent’anni a questa parte. Maturo, consapevole, coraggioso e cazzutissimo. Ottima regia, ottima gestione degli attori, ottimo montaggio, sonoro e regia. Se non vi piace il film, non è perché non amate il genere… è che non amate il Cinema. Miwa, lanciami i componenti!!!

VOTO: 8+










1 commento:

  1. Bebe! Vorrei poter argomentare qualcosa di diverso e creare una bella discussione dialettica, ma sottoscrivo ogni parola che dici, e anche il modo in cui lo dici!!
    Bravo!!

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