20/12/12

ME TOO (di Alexey Balabanov)




Un losco figuro di nome Bandit fa secchi un bel po’ di altri tizi nella notte di San Pietroburgo. Beh, come inizio non c’è male! Solo che il film non è affatto un noir in tinte russe e nemmeno un action “vecchia scuola” con esplosioni, battutacce e “busserie” varie. Bandit, infatti, terminata l’esecuzione, recupera tre scoppiati (suo padre, un amico e un tale chiamato Musician) e organizza una spedizione verso Felicità.
No, nessuna metafora. Felicità non è una condizione dell’anima, bensì un luogo preciso, raggiungibile in automobile e geograficamente collocato nel mezzo della campagna russa, con tanto di frontiera per accedervi e relativa segnaletica stradale.

All’improbabile e mal assortito quartetto – che approfitta del viaggio per tracannare vodka come se non ci fosse un domani – si aggiunge una misteriosa autostoppista: una prostituta filosofa, redenta, anch’essa in viaggio per l’agognata destinazione.

Purtroppo (per l’ex prostituta), regole note esclusivamente al quartetto impongono che la poveretta, varcata la frontiera, si denudi completamente e prosegua il viaggio di corsa mentre imperversa il gelido e nevoso inverso russo. Tutto ciò con buon pace della logica e del buon senso. Ma tant’è!

Nel frattempo, un uomo che conosce tutto e che utilizza la sua onniscienza per dispensare consigli di bassa lega sulle tv locali si mette pure lui in viaggio e, ovviamente, finirà per incrociare i nostri quattro eroi (ormai completamente ebbri e stonati) che lo invitato ad occupare il posto in auto lasciato libero dalla donna (che per tutto il resto del film continuerà a correre nuda per i campi con quaranta sotto zero);
Il vate, dopo un breve tragitto, si fa lasciare nei pressi di un tabaccaio, ma non prima di aver predetto ai nuovi compari l’infausto epilogo del loro pellegrinaggio.

La meta, per tutti, è costituita da una vecchia chiesa abbandonata il cui campanile ha la capacità di vaporizzare i degni (facendoli assurgere al cielo?); gli altri dovranno invece morire. Chi riuscirà nell’impresa?


La costruzione narrativa procede per singhiozzi e spasmi. È come se il film, più che tentare di raccontare una storia, fosse impegnato a tradurre per immagini la ossessiva e “punkeggiante” colonna sonora. Sembra un film girato dal fratello pazzo di Kaurismaki (e, con questo, spero di avere reso l’idea).

Balabanov non è sicuramente uno sprovveduto alle prime armi, ma è regista capace, esperto e assai brutale. I precedenti lavori (in particolare i due “Brat” e “Cargo 200”) ne hanno restituito l’immagine di un autore capace di descrivere l’assurdità della violenza che aleggia nella nuova Russia. La sua filmografia costituisce un affresco di infinita brutalità e follia da cui nessuno pare dispensato: poliziotti, politici, studenti, malavitosi, uomini, donne. L’universo di Balabanov è senza appello e senza speranza. La campagna è un luogo di morte e di soprusi. La città è una jungla in cui il forte mangia il debole; anzi, in cui anche chi è forte rischia di soccombere se non diventa ancora più cattivo. Le sue immagini sono brutali e poetiche e la sua regia è stata spesso accostata ai grandi maestri (su tutti Tarkovskij).

Tutto ciò deve essere tenuto in debita considerazione se non si vuole frettolosamente liquidare “Me too” come un gratuito divertissemant o, semplicemente, come un film riuscito male.

Me too”, formalmente, sembrerebbe iscriversi alla tradizione delle grandi opere simboliche, se non che il simbolo resta in questo caso del tutto incomprensibile ed oscuro. Tale circostanza, tuttavia, non costituisce tanto un errore, quanto piuttosto una precisa scelta registica ed autoriale: Balabanov ha espressamente dichiarato di non aver voluto in alcun modo caricare i propri personaggi di caratteri metaforici o allegorici.

La scelta è indubbiamente coraggiosa e, probabilmente, anche un po’ folle, ma merita comunque una riflessione (non tanto, a questo punto, sul significato del lungometraggio, quanto piuttosto sul perché il regista abbia voluto girare un film così strampalato: provocazione? sperimentalismo? pura ricerca espressiva? postmodernismo alcolico siberiano? Ai posteri l’ardua sentenza.

Volendo, sarebbe anche possibile trovare chiavi di lettura antropologice e/o politice: la città è un luogo claustrofobico e buio, gli appartamenti sono luoghi kafkiani, automobili ed ascensori sono spazi chiusi ed opprimenti; d’altro canto la campagna russa è fredda, innevata ed infinita, popolata dai resti di manufatti abbandonati, dai relitti di centrali atomiche e dalle rovine di chiese sconsacrate. Non c’è speranza. Da nessuna parte. Dell’antico e glorioso impero rimane poco o nulla e non rimane che affidarsi alle leggende ed ai vaticini.
Quando imperversa l’ora del lupo, la superstizione prevale sulla logica. La fede della salvezza è un motore fortissimo, soprattutto quando la logica non offre letture confortanti.

I personaggi, come detto, sono fortemente connotati in chiave iconica (non è un caso che non vi siano attori professionisti e che Bandit sia un killer e Musician un musicista): essi rappresentano nient’altro che se stessi e raccontano – ognuno dal proprio punto di vista, ma che è lo stesso per tutti – il proprio personale spaesamento e la propria incapacità di trovare un ruolo nel mondo.



Semplicemente meravigliosa la sequenza nell’appartamento del padre di Bandit che precede l’odissea verso Felicità e geniale la scena di Musician che “intona” la sua canzone.

Grave, comunque la si pensi, il silenzio assordante che circonda il film: nessuno ne parla, nessuno ne scrive, pochissimi lo vedranno!



GIUDIZIO SINTETICO: folle e divertente; angosciante ed incomprensibile. Alcune sequenze strepitose ed una bellissima colonna sonora. Unico.

VOTO: 6/7












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