07/01/13

ENTER THE VOID (Gaspar Noè)


  
Basterebbero i titoli di testa (tra i più belli di sempre) a preannunciare l'assoluta straordinarietà della pellicola di Gaspar Noé.
Certo, la sinossi è pratica sbrigabile in poche battute: due giovani occidentali, fratello e sorella, si ritrovano di nuovo insieme in una Tokyo allucinata e allucinante anni dopo l’incidente che ha portato alla morte dei genitori ed alla loro separazione; lui è uno spaccino e assume ogni genere di droga sintetica; lei fa la ballerina di lap dance in un locale chiamato “The Void”; Oscar, il ragazzo, promette alla sorella di non abbandonarla mai più, ma durante una retata viene accidentalmente ucciso ed il suo spirito comincia a fluttuare tra ricordi passati e presenti.

Come dicevo, la trama non brilla per complessità ed originalità, ma è tutto il resto che rende la pellicola eccezionale o insopportabile a seconda che si accetti o meno di entrare, a nostra volta, nel vuoto/pieno dell'esperienza.
Due ore e mezza di deliri lisergici, reminiscenze spettrali, luci al neon e colori pop.
I dolorosi ricordi del passato si alterano dentro le tinte sgargianti di viaggi acidi, tra complessi edipici irrisolti e deliri ispirati al libro tibetano dei morti.
Sesso, metempsicosi e flussi di coscienza joyceiani…
E poi, c’è Paz de la Huerta che è di una bellezza che toglie letteralmente il fiato e si concede come se fosse immune ad ogni inibizione.





Il film, con buona probabilità, irriterà molti, annoierà le masse e rimarrà completamente incompreso dalla maggior parte degli spettatori. Sicuramente non arricchirà le tasche dei produttori e non aprirà la porta a sequel, reboot e saghe varie. In tutta sincerità non è nemmeno un film che amplia la nostra consapevolezza del mondo: non racconta la condizione politica di poveri sottoproletari inglesi, la miseria esistenziale dei sobborghi di Seul o la violenza dei ghetti americani. Nessuna particolare indagine introspettiva. Nessun intento dogmatico o vocazione didascalica (sebbene, come vedremo, i temi importanti non manchino affatto). Impossibile identificarsi pienamente nei personaggi. Non è nemmeno un divertissement alla "Paura e delirio a Las Vegas" o un'ode tossica alla "Trainspotting". Eppure, che meraviglia pensare che al di là delle Alpi esista un sistema produttivo che consente ai Noé, ai Carax, ai Laugier di realizzare opere inquietanti, straordinarie e radicalmente estreme senza doversi preoccupare di accondiscendere le misere aspettative di masse celebrolese e senza prostituirsi al cinema usa e getta dei cinepanettoni.

Film evento del Festival di Cannes 2009, e arrivato in Italia con tre anni di imperdonabile ritardo, “Enter the void” chiude perfettamente il cerchio “di questi cazzo di anni zero” proiettandoci amaramente e profeticamente verso il prossimo decennio.


Sicuramente “Enter the void” è opera destinata ad alimentare polemiche e contrasti. La si amerà moltissimo o la si detesterà con tutte le forze. Difficilmente lascerà indifferenti e neutrali rispetto al dibattito.

Si può contestare un'opera come "Enter the void" per la sua programmatica enigmaticità; per il suo ermetismo e per la sua profonda e caotica ambiguità. Si può serenamente bollare il film come una mera provocazione, un esercizio di stile sconclusionato o, peggio, come una furbata ben confezionata... Qualcuno potrà lapidariamente commentare con un sonoro "ecchissenefrega"...

Tutto vero, tutto lecito e tutto sacrosanto.

Non è obbligatorio apprezzare opere come "Enter the void", "Holy motors" o "Martyrs" (solo per ricordare i film dei già citati registi d'oltralpe), ma trovo che il Cinema sarebbe ben misera cosa se non permettesse a simili outsider di esprimere il proprio estro solo perché produttivamente poco appetibili e intellettualmente poco ortodossi.
Noé ha il coraggio di dare colore al vuoto, di mostrare l'assenza.
Raramente ho assistito ad una così estrema libertà di ricercare e di esplorare forme di rappresentazione e modi di espressione. D’altronde, il tentativo non è anche quello di provare a descrivere il viaggio dell’anima? l’impresa, non è pure quella di mostrare (e, quindi, di-mostrare) la vita dopo la morte?
No, nessun misticismo posticcio o nuovo paganesimo. Noé non insegue coerenza dogmatica né brama proseliti da convertire. Non offre ricette metafisiche (d’altronde, il titolo stesso è laicamente programmatico in tal senso), ma si interroga artisticamente su come rappresentare un vuoto che è il prodotto di tutti i pieni possibili. Come il bianco che costituisce la somma di tutti i colori.


Meravigliose soggettive, riprese dall’alto, flussi stordenti di luci di kubrickiana memoria. Il punto di vista della messa in scena è l’unico elemento che ci suggerisce il come, il dove ed il quando degli eventi. Finché Oscar è vivo possiamo vedere attraverso i suoi occhi; dopo la morte la visione fluttua con il suo spirito (o la sua anima) fino a smarrirsi nel vortice in cui i ricordi, i pensieri e le emozioni si mescolano col presente e formano quel concetto così semplice e così complesso che è il Tempo ed il suo fluire.

Non vorrei esagerare, ma credo che Noé abbia realizzato, consapevolmente o meno, una strepitosa cartolina del nostro contemporaneo, metaforicamente rappresentato da una discoteca chiamata Void collocata in una Tokyo illuminata al neon che è lo specchio e la sintesi di tutte le città del mondo (o, meglio, è l’astrazione immaginifica di una ipermoderna megalopoli).


Viviamo un'epoca vuota e colorata, povera di valori e ricca di luci sbiriluccose. I potenti mezzi di comunicazione di cui disponiamo (internet, tv via cavo, telefonini cellulari) soddisfano la nostra fame di conoscenza onnivora e superficiale. Siamo convinti che sapere sia una veloce ricerca su wikipedia e che stare con gli altri sia condividere esperienze sui socialnetwork. Non appartengo certamente a quelli che pensano che troppa velocità, troppe possibilità, troppe informazioni si riducano a superficialità e portino necessariamente al caos. Non penso, né ho mai pensato, che troppo faccia rima con nulla…
Tuttavia, il pericolo esiste e, forse inconsapevolmente, “Enter the void” affronta (o, meglio, mette in scena) proprio questo pericolo.
Se ci si riflette attentamente, infatti, il film è tutt’altro che “vuoto”… uno dietro l’altro si accavallano e si rincorrono i grandi temi della Vita e della Morte: Sesso, Amore, Rapporti edipici, Famiglia, Aborto, Droga, Violenza, Solitudine e finanche Reincarnazione.

Certo, qualcuno (anzi, la maggior parte, stando a quanto ho letto e sentito in giro) potrà contestare al regista l’assenza di ogni logica all’interno di una sceneggiatura che non è nemmeno un canovaccio e che miscela tematiche apparentemente a caso senza seguire alcun filo logico. Ecco, il problema della caoticità e della superficialità del troppo…
Ancora una volta, tutto vero.


Ma, se si vuole essere onesti fino in fondo, non è forse, quella offerta da Noé, una delle migliori metafore dell’intera nostra contemporaneità? Droghe sintetiche e Libro tibetano dei morti; sesso sfrenato e complessi edipici; bisogno disperato di affetto e solitudine annichilente; ricerca di un senso e breviari divulgativi. Tutto mischiato e tutto assieme. Senza apparente logica, coerenza, approfondimento. Non è forse questa una delle più connotanti caratteristiche del nostro tempo? L’infinita e quindi inafferrabile possibilità del tutto? Così tanti colori da rischiare l’annullamento dentro un bianco accecante?

Mi assumo tutta la responsabilità di inserire “Enter the void” tra i film più rappresentativi dell'ultimo decennio e, forse, anche del prossimo.
Enter the void” mi permette di sperare che possa esistere ancora un cinema di idee, di domande, di problemi legati alla molteplicità del reale ed alla difficoltà della sua rappresentazione.
Enter the void” appaga la mia esigenza di complessità, stordendomi attraverso un caleidoscopio di immagini che offrono la sintesi (nonostante le oltre due ore e mezzo di film) non solo del presente, ma anche del prossimo futuro.
Grazie a Noé, posso ancora sperare che il cinema non sia solo quello che parla di trentenni frustrati che si cornificano a vicenda o quello che si esprime attraverso battutacce stupide e razziste.

Credo fermamente, parafrasando l’immenso Fassbinder, che i film possano aiutare a liberare la testa; che interrogarsi su qualcosa che non si è capito o indagare quello che ancora non si conosce sia più sano che anestetizzarsi dietro scontate ed innocue rappresentazioni del reale.
Credo che “Enter the Void” valga l’esperienza (pur dura, faticosa e, a tratti, disturbante) della sua visione.

La scommessa di Gaspar Noé sembra essere quella di provare a rappresentare l'irrappresentabile; di mostrare i pensieri; di dare corpo ai fantasmi di un’intera generazione.
Il suo interrogativo, come si sarà intuito, è però più artistico che esistenziale; più espressivo che politico.
Noè non è filosofo, né antropologo; non è psicanalista, né accademico.
Il suo mestiere è quello del cinema e, pertanto, la sua ricerca è prettamente visiva. Attraverso i canali ed i codici espressivi più connotanti degli ultimi decenni egli prova a descrivere il suo personale viaggio dentro al vuoto: linguaggio pubblicitario, computer grafica, immagini amatoriali, riprese webcam, colori fluo... Chi più ne ha più ne metta: la somma darà sempre bianco. Benvenuti nel Vuoto.
Noè, infatti, con un'operazione uguale ed inversa a quella di un qualsiasi Oliver Stone (per citare uno dei più sopravvalutati alfieri di certo cinema considerato "sperimentale"), non da mai l'impressione di volersi accattivare le nostre simpatie, di riscaldarci un minestrone di trucchetti ad effetto solo allo scopo di stupirci e meravigliarci.

La visione, infatti, è tutt’altro che accattivante ed accomodante; veniamo respinti dalle immagini (che pure sono di abbacinante bellezza) e al termine della visione rimaniamo come storditi dopo una forte febbre.

 Il regista non offre alcuna risposta (d’altronde come potrebbe?) e, addirittura, non pone nemmeno delle vere e proprie domande (le quali sarebbero destinate a rimanere comunque inevase: cosa c’è dopo la morte…?).
Noé entra nel “vuoto” della vita contemporanea (piena di troppo dolore, di troppa inquietudine, di troppa sofferenza, di troppa solitudine, di troppa frenesia, di troppa irrequietezza) e, da regista, affresca una cartolina coloratissima e luminescente che spedisce ai posteri per raccontare, con il suo neorealismo a luci stroboscopiche, il fantasma o, meglio, l’anima del nostro presente.
Come diceva il poeta “ai posteri l’ardua sentenza”. Io misero mortale, nel frattempo, mi inchino di fronte a chi si è assunto il rischio di tale mastodontica operazione.





GIUDIZIO SINTETICO: Titoli di testa, soggettiva iniziale e Paz De La Huerta giustificano da soli la visione del film. Il resto è per cuori impavidi e menti aperte. Si consiglia la visione, almeno la prima volta, al netto di aiuti chimici ed alchemici.

VOTO: 8










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