09/12/12

PROMETHEUS (di Ridley Scott)



Prometeo era il nome del Titano che – su incarico di Zeus – forgiò gli uomini donando loro memoria e intelligenza. Ciò rese i mortali forti al punto da impaurire persino il dio dell’Olimpo che ne ordinò la totale distruzione.
Prometeo, allora, rubò e donò loro il fuoco divino e, prima di subire la tremenda punizione, riuscì a rinchiudere nel famoso vaso – poi malauguratamente aperto dalla bella ma fessacchiotta Pandora – tutti i mali del mondo.

Questo bignamino non è sfoggio di cultura personale, ma necessaria premessa per comprendere le suggestioni che hanno ispirato “Prometheus” ed al fin valutare la riuscita di un’impresa che fin dal titolo (programmatico manifesto ed evocativa dichiarazione di intenti del regista che trent’anni fa si reinventò la fantascienza) si pone, appunto, come titanica: dare un senso alla nostra presenza terrena.

Prometheus, nell’ultimo film di Ridley Scott, è il nome dell’astronave spaziale che, dopo due anni di viaggio intergalattico, conduce un manipolo di scienziati su un pianeta inospitale alla ricerca di risposte alle sempiterne domande sull’origine e sullo scopo dell’umano esistere.


Dio? Il Caso? Gli “ingegneri”? A chi dobbiamo la nostra esistenza? Perché esistiamo e come siamo venuti al mondo? La vicenda, ovviamente, prende subito una brutta piega e, in ossequio ad una formula ormai abusata, tutto il team viene ridotto a brandelli. Si salveranno solamente Elisabeth ed il cyborg David.

Trent’anni fa il signor Ridley Scott rivelò al mondo “Alien”, assumendosi la responsabilità di condizionare in modo irreversibile l’immaginario visivo ed il panorama emotivo del futuro genere fantascientifico. Da quell’incredibile e miracoloso incipit hanno preso vita sequel, rivisitazioni, contaminazioni, reboot, crossover e chi più ne ha più ne metta. Grandi autori (Cameron, FincherJeunet), grandi produzioni hollywoodiane (“Alien vs Predator”), fumetti e persino videogiochi si sono alternati, con risultati altalenanti, nella impervia sfida di proseguire/rinnovare/reinterpretare un racconto ormai epico.
Prometheus” costituisce una sorta di prequel/omaggio dell’intera saga. D’altronde chi meglio del suo inventore avrebbe potuto prendersi la responsabilità di spiegarci le origini del mito omaggiando al contempo la propria opera prima?

Alien” e “Prometheus”, infatti, sono due prodotti apparentemente identici e speculari: ricorrono alla stessa struttura narrativa e sfruttano gli stessi sviluppi drammaturgici.
Il problema è che il primo era un capolavoro che faceva letteralmente rabbrividire, mentre il secondo è una minestrina riscaldata che annoia a morte. Non basta aggiungere qualche ingrediente per togliere il cattivo sapore di deja-vù.


Quanto alla Storia, la tesi del nuovo capitolo è sicuramente affascinante: noi umani potremmo essere stati costruiti da “ingegneri” alieni per scopi non meglio precisati e poi, per ragioni probabilmente legate alla sopravvivenza dei nostri stessi creatori, condannati alla distruzione (ricordate il bignamino introduttivo: Zeus? Prometeo?).
La creatura aliena, morfologicamente così come la conosciamo, è l’infelice prodotto dell’unione di un organismo infestante con uno dei suddetti ingegneri provocata dalla dott.ssa Elisabeth nel tentativo disperato di salvarsi la pelle.

In pratica, la genesi dell’ibrido dalla testa oblunga sarebbe responsabilità della donna (Pandora?).

Il parallelismo col mito greco, manifestato nelle intenzioni dell’autore fin dal titolo, regge però solo fino ad un certo punto: se gli “ingegneri” possono essere gli dei che ci hanno generato (con buona pace per tutte le teologie e religioni) e se la nave Prometheus può rappresentare il Titano che si è sacrificato per proteggerci, chi rappresentano invece le creature aliene (forse il male del mondo custodito nel vaso? Quindi Pandora sarebbe la scienza? E chi rappresenta allora il cyborg David? La metafora del ciclo che si ripete?). a ciascuno la propria interpretazione.
Il punto non è comprendere esattamente tutto quello che Scott aveva in testa (anche se ciò costituirebbe indubbiamente un punto a suo favore).

Il punto è che il film mostra tutti i limiti intellettuali dei prodotti culturali americani degli ultimi anni (ovviamente con le dovute eccezioni): condensare filosofia greca, miti religiosi e rigore scientifico in un bignami di due ore e mezza che renda plausibile una storia di spari ed esplosioni con tanto di alieni e astronavi spaziali costituisce un’operazione assai complessa che richiederebbe menti assai avvezze alla speculazione astratta.
La fantascienza costituisce certamente un terreno assai fertile per seminare le domande giuste (P.K. Dick docet), ma le risposte sono tutta un’altra storia… Con tutto il rispetto possibile, Scott non è Hegel o Platone e nemmeno Herzog o Tarkovskij.

La narrazione procede a strappi, tra contraddizioni e incertezze, e tutto l’epilogo sbrocca in una roboante accelerazione che sembra voler coprire la carenza di idee originali.
















Dunque, se l’operazione può dirsi egregiamente riuscita sul piano della pura spettacolarità visiva (il film è un vero piacere retinico: eccezionali la fotografia, il mecha design delle astronavi, la cura maniacale degli arredi, delle armi e dei bellissimi costumi di scena; i caschi luminescenti sono stilosissimi e, finalmente, le tute spaziali sono degne di questo nome e non assomigliano ad economici pigiami di acrilico) altrettanto non può dirsi su quello del controllo narrativo e filosofico della vicenda.


I personaggi sembrano tutti tagliati con l’accetta: i buoni sono buoni, i cattivi sono cattivi. Punto. Gli scienziati vogliono la conoscenza, i ricchi vogliono essere più ricchi, i vecchi non vogliono morire, i robot vogliono una coscienza… Ma va?
Il cyborg David – non certamente figura originale – potrebbe comunque risultare di un qualche interesse, ma il suo personaggio non si pone quasi mai le giuste domande ed è troppo confuso tra aspirazioni di coscienza e cieca ubbidienza a direttive superiori.





Paradossalmente, la faraonica e pur meravigliosa messa in scena costituisce uno dei principali motivi di fallimento del film: “Prometheus”, come dicevamo, è narrativamente e drammaturgicamente costruito in modo speculare al primo “Alien”: in entrambi i film un manipolo di uomini si trova rinchiuso in un ambiente ostile, costretto a lottare contro qualcosa di mai visto e tremendamente più forte; le morti si susseguono una ad una, con macabra regolarità sino all’epilogo finale in cui si salva solo l’eroina di turno: all’epoca fu la Ripley, oggi tocca ad Elisabeth.
Il problema è che, allora, tutto ciò era una novità assoluta.
Ma, soprattutto, “Alien” era buio, gotico, fetish, claustrofobico… i corridoi dell’astronave Nostromo erano fatiscenti e stretti; la tecnologia era ingombrante e rugginosa… ovunque, correvano tubi gocciolanti e condotti fumosi. La sensazione portante era di precarietà e insicurezza.

La Prometheus è viceversa luminosa ed asettica… è bellissima (vedi la suite della Vickers/Theron) ed igienica.
Tutto sembra appena uscito di fabbrica e tirato a lustro con doppio strato di cera.
Manca completamente l’atmosfera… manca la paura, quella sensazione che tutto potrebbe sfasciarsi da un momento all’altro.



A parte una grandiosa sequenza splatter (l’auto-cesareo della Rapace) il film non è mai veramente disturbante… “Alien” sta a “Prometheus” come un bordello di fine ottocento sta ad un moderno peep show: “Alien” era sporco, eroticamente e sessualmente conturbante; era un’ossessione di bave, protuberanze falliche, filamenti appiccicosi… si avvertiva una primordialità carnale e sessuale che correva all’interno di uno scenario tecnologico e fantascientifico al contempo moderno ed arcaico.
In “Prometheus” manca totalmente la dimensione sessuale (se non nella sua manifestazione puramente tecnica e meccanica); manca quel voyerismo perverso che ci obbligava a socchiuder gli occhi, ma a continuare comunque a spiare quella sinfonia di penetrazioni, di carni aperte, di corpi che fuoriuscivano da altri corpi…
Alien” era atavica paura del buio, dell’ignoto, dell’altro da sé. “Prometheus” si lascia ammirare nella propria innocua bellezza.
Prometheus” vuole celebrare il mito, ma lo igienizza e, perciò, lo annienta.
È come pretendere di officiare un rito pagano orgiastico seguendo le prescrizioni imposte dall’USL.




GIUDIZIO SINTETICO: Come insegna il vecchio mito del Titano: a scherzare col fuoco ci si può bruciare pesantemente. Occasione mancata. Peccato!

Voto: 5 - - - 





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