16/05/13

THE GRANDMASTER (di Wong Kar Wai)



Allora, il film dovrebbe essere la versione di Kar Wai della vita di Yip Man
Chi fu Yip Man? Semplicemente uno dei maestri di arti marziali più cazzuti del novecento e, tra le altre cose, il mentore di Bruce Lee
Il maestro Yip, come vuole la migliore tradizione, era cinese: nato a Foshan nella provincia di Guandong
Fin da giovanissimo viene iniziato alle arti marziali e perfeziona un suo personalissimo stile grazie al quale, in poco tempo, diventa il combattente più forte e rispettato della città.
Essendo ricco di famiglia, non è costretto ad insegnare e nemmeno a lavorare, ma riesce comunque a trovare il tempo e la voglia di tirare su qualche discepolo. 
Tutto procede alla stragrande, finché i giapponesi, nel 1937, hanno la bella pensata di invadere la regione e di occupargli casa. La guerra lo manda in disgrazia e lo convince a trasferire la famiglia (ed a prendere un po’ di giapponesi a mazzate). Finita la guerra si trasferisce ad Hong Kong dove è in atto una disputa su quale sia la scuola, lo stile ed il maestro più peso di tutti: nel dubbio, Yip prende tutti a mazzate e, già che c’è, le canta pure ai coloni inglesi.  
Nel 1972 passa a miglior vita.

So tutto questo perché l’ho visto in un altro film, quello di Wilson Yip con Donnie Yen ad interpretare il grande maestro; il film si intitola “Ip man” e vi consiglio di recuperarlo, perchè è un bel bio-pic, anche se piuttosto romanzato, che ha avuto un enorme successo di critica e di pubblico e che ha vinto anche un sacco di premi per cui hanno deciso di farne un seguito ancora più romanzato (“Ip man 2”) ed è già in cantiere il terzo capitolo… 

Vi racconto tutto questo perché a Wong Kar Wai non frega una cippa dei bio-pic e forse ancora meno del maestro Yip visto che il suo “The Grandmaster” racconta tutt’altro. Il maestro Yiptuttavia, era una gran cartola e mi sembrava meritasse quantomeno due righe di presentazione...
E ora veniamo a “The grandmaster” che è un film che parla di arti marziali molto più di quanto non le mostri.
L’opera di Wong Kar Wai non si iscrive semplicemente al tradizionale filone dei wuxiapian e dei gongfupian, ma ne segna l’assoluta rivoluzione copernicana.
Per quel che vale, i gongfupian sono film di cazzotti (un po’ alla Bud Spencer e Terence Hill) solo che invece degli schiaffoni in faccia e dei cartoni sulla testa i vari interpreti si sfidano a colpi di Kung-fu, Karate, Ju Jitsu, Silat e via discorrendoI toni possono variare dal comico al drammatico, dal grottesco al tragico, mentre le trame si risolvono quasi sempre in semplici e lineari pretesti per menare le mani: tizio deve vendicare la morte dell’amico/fidanzata/figlio/genitore/maestro/bimbetto innocente/compagno di merende e si allena come una bestia finché non massacra tutti i cattivi a mani nude o con qualche bastone/nunchaku/asta di legnoSpesso, il teatro della vendetta è costituito da un’arena in cui si svolge il milionesimo super torneo mega-galattico in cui si sfidano tutti i rappresentanti (sovente dei gran simpaticoni) delle varie scuole e dei vari stili (e ce ne sono un botto). In genere, tutto finisce in caciara con grande sollazzo generale e grande esibizione di tecniche e stili.


wuxiapian, a loro volta, sono come i gongfupian, ma invece delle mazzate ci sono le cappe, le spade e i duelli volanti. Nei wuxiapian le storie sono spesso ispirate a qualche episodio mitico o personaggio leggendario, che spesso viene inserito a forza dentro un racconto simil-storico durante una delle millemila battaglie per la conquista dell’impero. Il mischione storia + leggenda + epica cinese è talmente bizzarro che la costante dei wuxiapian è quella che, a partire da un certo punto, quasi tutti i film iniziano a non seguire più alcun filo logico: le trame deflagrano in sequenze montate a caso, spesso con sbalzi temporali e geografici privi di alcuna giustificazione razionale e/o spiegazione narrativa. Lo scopo del wuxia, del resto, non è certamente il rigore storico, ma semplicemente creare un contesto plausibile per giustificare combattimenti volanti sempre più spettacolari e in cui celebrare i valori dell’eroe. Già, perché i wuxia celebrano l’epica, mica la realtà, quindi i protagonisti se ne impippano alla stragrande delle leggi della fisica e camminano bellamente sulle acque svolazzando come fossero passerotti (o almeno, grazie all’impiego massiccio degli appositi cavi, saltano molto in alto e per molto tempo).
Tutto questo pippone, come al solito, non è sfoggio di cultura (e ci mancherebbe), ma semplice e necessaria introduzione per far capire, a chi non ha passato la propria adolescenza a vedere i film di mazzate su Capodistria e Italia 1, che “The grandmaster” è tutto questo, ma anche molto, molto, molto di più.

Come detto, Wong Kar Way si prende la briga di riscrivere l’alfabeto dei film di arti marziali, riuscendo a realizzare un’opera a tratti imperfetta, talvolta ermetica e spesso assai sconclusionata (come ogni buon wuxia, del resto), che è comunque di una bellezza monumentale e che raggiunge picchi di lirismo raramente visti nel cinema del nuovo millennio.


Il film, sostanzialmente, ruota attorno a due linee narrative principali che di volta in volta si intrecciano e si separano tra loro: da una parte c'è il maestro Yip (in teoria il vero protagonista della vicenda) il quale è preso tra l'incudine (la famiglia) ed il martello (onorare la tradizione dei suoi maestri e dedicarsi allo studio, alla pratica ed alla diffusione del Wing Chun, che è un particolare stile di kung-fu). A complicare il tutto ci si mette anche la guerra sino-coreana.
Dall'altra parte c'è Gong Er (forse la vera protagonista del film), figlia di un grande maestro del Nord e anche lei combattuta tra la volontà di difendere l'onore della propria famiglia (e, in seguito, di vendicare l'omicidio del vecchio genitore) e il desiderio di sposarsi e avere una vita "normale".
Entrambi i personaggi incarnano quel conflitto tipicamente asiatico che conduce quasi sempre al sacrificio del sé per il rispetto della tradizione, dei maestri, dei beni più grandi. E la via dell'onore non solo giustifica, ma spesso impone una vita di tremende rinunce. 
Non essendo, quella cinese, una società cattolica, il rimpianto per i sacrifici fatti è ammesso, ma (proprio perchè non è una società cattolica) esso è solo un sussurro, un brevissimo ed umano cedimento che non sfocia però mai nel tradimento del proprio percorso (da loro, chi devia dal percorso come minimo finisce malissimo; altro che indulgenze e pentimenti in punto di morte). Bellissima, da questo punto di vista, l'intima confessione di Gong Er a Yip Man, che non costituisce affatto un ripensamento, né un pentimento o un rimorso, ma solo la tenera condivisione di due spiriti affini. Entrambi hanno intrapreso un difficile cammino che comporta solitudine e dolorose rinunce: Gong Er ha accettato di non poter insegnare nè sposarsi; Yip di non ricongiungersi più con la propria famiglia. Entrambi si sono amati in silenzio e a distanza e la loro vita avrebbe potuto essere diversa. Ma, ribadisco, nessun pentimento: in oriente hanno la straordinaria capacità di trasformare il rimpianto in nostalgia, il rammarico in mestizia, la frustrazione in pace. Sarà che loro sono buddisti e noi cattolici... in ogni caso, loro hanno "The grandmaster" e noi "L'ultimo bacio": trovate le dieci impercettibili differenze... 

The grandmaster” è un film sicuramente con un sacco di difettiSarà che ho letto che gli hanno ridotto il montaggio da oltre quattro a poco più di due ore (questa, forse, la ragione perchè il tiolo è passato dall'originario "The grandmasters" all'attuale "The grandmaster"), ma la trama procede veramente un po’ troppo a caso (persino per un wuxia), tra continui sbalzi narrativi e temporali i cui raccordi non sempre (o, forse, quasi mai) si coordinano alla perfezione.
I personaggi (tra cui lo stesso Yip) sono spesso tratteggiati in modo sbilanciato, incompleto, parziale. Viene prestata maniacale attenzione per certi particolari del carattere e della personalità, ma ne vengono completamente omessi altri raramente è chiaro cosa ne motivi le scelte o le ragioniTra i numerosi personaggi, forse solo in quello di Gong Er (la sempre bellissima Ziyi Zhangsi riesce a cogliere una sorta di interezza e compiutezza dell’affresco. Tutti gli altri rimangono figure più o meno abbozzate: bellissime macchie di colore; intriganti improvvisazioni sulla partitura di un’opera che può vivere solo della sua interezza e mai nelle sue singole note.

Ma Wong Kar Wai, piaccia o meno, è un genio e “The grandmaster, se mai ce ne fosse bisogno, lo dimostra anche con tutti i suoi innegabili difetti.

Nonostante le dichiarazioni dello stesso regista, sono convinto che a Kar Wai non freghi nulla del cinema di arti marziali (inteso come genere): a Kar Wai frega piuttosto del proprio cinema, della propria idea di regia, della propria visione del mondo che, come già avvenne in occasione del suo esordio (Ashes of Time) si confronta questa volta con uno dei generi della tradizione.

E come in tutti i film di arti marziali, anche in The grandmaster ci sono i combattimenti (pochi, per la verità); ci sono i salti che sfidano la gravità; ci sono i confronti tra le tecniche e le scuole; c’è l’eroe che è il più peso di tutti; c’è una mezza storia d’amore assolutamente casto e proibito (proprio perchè non sono cattolici); c’è la tipica gestione casuale della trama che ad un certo punto si smette quasi completamente di seguire per concentrarsi su tutt'altro altro: ecco, la vera differenza, rispetto ai wuxia tradizionali, è che in “The grandmaster”, l’altro, non sono le mazzate.
Kar Wai, l’ho già detto, non frega una cippa delle tecniche e dei combattimenti come espressione di pura fisicità e atletismo dei suoi protagonisti. Gli interessa la loro essenza, che esplode, mi si perdoni il gioco di parole, soprattutto grazie alla loro assenza.
Non è affatto un caso che, a parte lo scontro iniziale, il film sia pressoché privo di vere e proprie scene di lotta.
Kar Wai se ne sbatte altamente di quello che vorrebbero vedere i fans e gli appassionati del genere (fondamentalmente: le botte), ma sono pronto a scommettere che solo pochi di loro usciranno delusi dalla visione del film.


The grandmaster”, infatti, non "tradisce" le arti marziali. Tutto il contrario. Semmai, tradisce le regole espressive del genere che tradizionalmente le mette in scena. Wong Kar Wai mira a cogliere l’anima purissima di quella che viene definita "disciplina marziale" la quale è solo in minima parte una tecnica di lotta e, molto di più, una concezione di vita, un mondo di valori, un sistema di elevazione del sè.
"The grandmaster" è come un film sul pugilato senza gli incontri: sulla carta sembrerebbe una stronzata (o, quantomeno, una contraddizione in termini) ma, se ci pensate bene, anche in “Toro Scatenato” (sicuramente il più bel film sul tema della storia del cinema) la parte atletica era la più trascurata. Lo stesso dicasi per "The wrestler". Perché limitarsi alla fisicità dell’azione quando puoi rappresentare l’anima di una disciplina e dei suoi eroi? Ecco, attraverso il filtro costituito dalla sua originalissima e straordinaria visione del Cinema, Wong Kar Wai ci racconta le Arti Marziali. Ma - appunto - non come mero insieme di tecniche spettacolari, di colpi speciali e di combattimenti scenografici. Kar Wai ci racconta le Arti Marziali come percorso di crescita, di comprensione, di miglioramento come individui: l’onore, il rispetto, la rinuncia, la pazienza, la cura, la dedizione, il sacrificio, la modestia, il controllo del sé e dei propri impulsi, la conoscenza dell’altro, la vocazione all’unione rispetto alla divisione, l‘accettazione della sconfitta onorevole e, finanche, della morte. Le arti marziali sono la bellezza che si oppone agli orrori del mondo. Sono l’ordine nel caos. Guidano la mente attraverso quelli che sembrano meccanici movimenti del corpo.
Questa è l’essenza dei film di arti marziali e questo è quello che ha voluto mettere in scena Wong Kar-way.

Eppure, come detto, nel film ci sarebbe anche tutto il resto: l’atletismo, le tecniche sopraffine, gli effetti speciali finalizzati ad esprimere la spettacolarità dei combattimenti ed il menefreghismo per le leggi newtoniane. C’è l’eroe fortissimo, l’amore proibito, il codice d’onore, il nazionalismo che si oppone all’invasione straniera, l’accettazione della morte e anche le mazzate.
C’è tutto questo e molto di più, ma ogni cosa viene completamente obnubilata dalla maniacale ricerca della pura Grazia, che è ormai il tratto distintivo del Cinema di Wong Kar Wai.
Si prenda il combattimento di apertura (nel quale Kar Wai ti dice chiaro e tondo: guarda e impara, povero pirla; ora ti mostro come si gira un scena di lotta! ma lo facco solo perché non ti passi mai dall'anticamera del cervello il sospetto che, dopo, farò quello che farò perché non so girare i film con le mazzate…): dieci minuti di sublime bellezza. Yip Man combatte sotto la pioggia scrosciante contro decine di avversari. L’armonia contro la confusione, la pace ed il controllo contro la violenza ed il disordine. Non c’è esibizionismo. Non c’è ricerca del colpo incredibile. Eppure sono tutti colpi incredibili! L’attenzione non è rivolta alle tecniche, ai pugni, alle cadute ed alle parate, ma allo stillicidio della pioggia scrosciante, all’acqua che mulina dalla falda del cappello di Yipalle gocce di sangue che macchiano di rosso il grigio delle pozzanghere, a mille altri dettagli che già ci anticipano dove il film andrà a parare. Dove Kar Wai andrà a parare. E non è certo verso un mero film di mazzate. Dieci minuti di lotta corpo a corpo e non si ha mai l’impressione di assistere a qualcosa di violento, di terribile, di terreno. Sembra la rappresentazione di una battaglia raffigurata sulla tela di un maestro fiorentino del quattrocento: il sangue, la morte, i lividi, le ferite sono tutti sublimati in qualcosa che non permette mai al dettaglio di sporcare la sacralità dell’insieme. Mai la violenza è stata cosi poco violenta e così tanto bella, pura, meravigliosa. Chi voleva l’ennesimo film di mazzate è pregato di uscire ed andarsi a noleggiare la VHS de ”L’ultimo combattimento di Chen” (che è sempre tantissima roba!!!).




Non è un caso che dopo questo fantasmagorico incipit Kar Wai decida di virare verso un film di trama in cui non si capisce nulla, di girare un bio-pic che ha per vero protagonista un altro personaggio, di realizzare un film storico in cui non si sa mai in che epoca ci si trovi.
Non è un caso che il suo Yip Man venga interpretato da un grandissimo attore (Tony Leung) che non solo non è affatto un esperto di arti marziali, ma che probabilmente farebbe fatica a saltare la Gazzetta del martedì.
Non è un caso che Kar Wai risolva la scena madre del film (il confronto tra Yip, incontrastato campione del Sud, e Gong Baosen, l’imbattuto maestro del Nord alla ricerca di un successore degno di riunificare le varie discipline) in una semlicissima sfida per il possesso di un dolcetto. E quella immediatamente successiva (in cui la figlia di Gong Baosen, Gong Er, combatte contro Yip per la salvaguardia dell'onore di famiglia) in un incredibile scontro-danza-amplesso che rasenta la pura Poesia.
Ecco, qualunque altro regista, messo di fronte ad una sequenza del genere, avrebbe avuto una crisi isterica, si sarebbe messo a piangere come un bambino e avrebbe preso seriamente in considerazione l’idea di appendere la macchina da presa al chiodo per cercarsi un lavoro vero. Ma non Kar Wai. Il nostro affezionatissimo plasma la materia a suo piacimento. Sintetizza in una sequenza l’essenza stessa del Wing-Chun e di millenni di cultura orientale: la determinazione e la saggezza, la giovanile irruenza opposta alla consapevolezza e all’accettazione, l'orgoglio e lo spirito di sacrificio.

Wong Kar Wai è quanto di più simile ci sia a Malick ad est del Meridiano di Greenwich. Il regista di Hong Kong condivide con l'autore di "Badlands" la stessa ossessione per la bellezza dell'immagine, la stessa tensione verso una assoluta perfezione visiva e compositiva. Talvolta il linguaggio è perfettamente funzionale al messaggio, ed allora viene fuori il capolavoro. Il rischio, sempre dietro l'angolo, è quello capitolare verso il puro manierismo, la narcisistica autoreferenzialità, la sterile replica di uno stile. 
Malick, da questo punto di vista, ha toppato alla stragrande con "To the wonder"; Kar Wai ha fortemente rischiato (pur senza capitolare del tutto) con "2046". 

"The grandmaster" è la sublimazione definitiva del puro stile Kar Wai: il regista che meglio ha incarnato la new wave hongkonghese gira un wuxia come un melò anni trenta, usa la luce delle candele come provenisse da lampade al neon, alterna con sapienza sopraffine scene di lotta a funerali nella neve, colori photoshoppati e immagini di repertorio, finte fotografie d'epoca e ricostruzioni storiche maniacali. Non c'è un granello di polvere fuori posto. Tutto è dove deve essere. Nonostante tutti i difetti: funziona! ed è bellissimo!

Cinema allo stato puro! Chapeau!





GIUDIZIO SINTETICO: Il grande rimpianto è quello di non sapere cosa sarebbe stato il suo film nel montaggio originale (di ben due ore più lungo). Eccessivamente confusionario e dispersivo a livello narrativo. Semplicemente straordinario tutto il resto. Quasi capolavoro!

VOTO: 7+

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1 commento:

  1. l ho visto ieri.
    Nel primo tempo la lite tra il vecchio maestro e l allievo bravo ma troppo orgoglioso e oscuro e' assolutamente uguale a l maestro Shifu e Tai Lung ( la tigrona cattiva che voleva essere il Guerriero Dragone)

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