08/09/13

MOEBIUS (di Kim Ki-duk)


Senza parole... in tutti i sensi. Il film, in effetti, non ha una sola battuta di dialogo e lascia ammutolito chiunque si azzardi alla visione. Il film "parla" attraverso gemiti, rumori, urla, pianti, ansimi e respiri. 
Kim Ki-duk non fa sconti. Obbliga lo spettatore a guardare una lunga carrellata di orrori: evirazioni, castrazioni, autoflagellazioni, scorticamenti, incesti, stupri, violenze fisiche e psicologiche... per dirci cosa? Per raccontarci che amare è soffrire, che piacere è dolore, che amore è odio. Certo, è dai tempi di Orazio che si canta la dicotomia insita nel più umano dei sentimenti, ma il regista coreano costruisce un'opera estrema e radicale che aggiorna Sofocle, ridicolizza Freud, raggiunge estremismi da marchese De Sade ed eleva a sistema le perversioni di Sadoch... 
Sembrerebbe tutto troppo eccessivo, gratuito, puramente provocatorio... eppure no!
Kim Ki-duk ci dice una cosa estrema e, per farlo, ha bisogno di ricorrere ad immagini estreme.
L'amore e la sofferenza non sono due facce della stessa medaglia, ma un nastro di Moebius. No, non si gioca sulle sfumature, tutt'altro. Due facce di una stessa moneta significano che, per passare da un lato all'altro, bisogna, ad un certo punto, fare una scelta (volontaria o meno) e varcare il confine (bordo) che separa la prima dalla seconda. In linea teorica, è possibile rimanere sempre sulla stessa faccia senza mai finire nell'altra.
Nel nastro di Moebius, invece, esiste un solo lato (e non due facce separate da un bordo) per cui, dopo aver percorso un giro da una parte, si finisce inevitabilmente dall'altra, senza passare alcun bordo; semplicemente andando avanti.

Dunque, dopo che si è percorso un giro, ci si trova sempre dalla parte opposta. Per poi ricominciare in eterno.


Così, però, cambia tutto. Il maestro coreano offre una visione disperata della condizione umana, quella secondo cui non è ontologicamente possibile amare senza odiare, provare piacere senza soffrire, percorrere un lato dell'esistenza senza finire inevitabilmente nell'altro. Tutto il film racconta questo dualismo, che non è mai una contrapposizione: così, l'amante e la moglie sono interpretate dalla stessa attrice; così, il figlio evirato diventa il padre dopo che questi gli ha donato il proprio membro. Vittima e carnefice, stupratore e stuprato, aggredito ed aggressore. Nessuno è una cosa senza essere anche il suo opposto. La famiglia deflagra. Padre, madre, figlio, amante... Ogni ruolo si perde e si confonde nell'altro. 
Personalmente, non condivido la visione di Ki-duk; sono fermamente convinto che, salvo casi straordinari o patologie mentali, possiamo essere padroni del nostro destino; sta a noi decidere su quale faccia della medaglia vogliamo trascorrere la nostra vita. Dunque, possiamo sbagliare; possiamo soffrire e far soffrire; possiamo avere ripensamenti; possiamo deludere ed essere delusi. Ma sono sempre libere scelte, non inevitabili conseguenze. Credo nella responsabilità delle azioni e nella consapevolezza delle scelte: quelle giuste, quelle sbagliate, quelle che lo sono entrambe. Senza, non c'è libertà e, senza libertà, manca tutto. 
La visione del regista coreano - per quanto disperata - è troppo comoda. Preferisco dover convivere con il peso delle mie scelte, piuttosto che fare il cazzo che mi pare, scrollando le spalle e sostenere che, tanto, è tutto inevitabile. Le azioni hanno conseguenze con le quali dobbiamo convivere, ma solo a patto che siano azioni libere e non inevitabili comportamenti determinati esclusivamente dalla casualità del punto che mi trovo, di volta in volta, a percorrere sul nastro di Moebius della mia vita. Però, la mia opinione non conta un cazzo e, per quanto non la condivida, debbo valutare quella di Kim Ki-duk per come lui l'ha voluta presentare. Ed allora il film è assolutamente coerente alla visione del suo autore, salvo la leggera caduta finale di stampo religioso spirituale, che funge un po' da (vile) salvagente a tanta spietatezza.
Un'ultima considerazione. Nonostante ben due tentativi, non sono riuscito a vedere il film al Festival di Venezia a causa delle migliaia di pecore in fila che si spintonavano per poter dire di aver visto il film scandalo... Salvo poi abbandonare la sala dopo dieci minuti di proiezione. Oggi, a Bologna, eravamo in sei in sala. Nessuno è uscito. Sfigati!


GIUDIZIO SINTETICO: Pellicola estrema ed estremista; a tratti intollerabile. Sicuramente non il miglior Ki-duk, soprattutto a livello visivo, ma rimane comunque un film denso di spunti e che farà discutere a lungo. E questo, è sempre un bene.

VOTO: 6/7

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