08/10/13

GRAVITY (di Alfonso Cuaron)





Paura dello spazio profondo… ad un'analisi superficiale, questa potrebbe apparire come una discreta sinossi della pellicola, ma la verità è che non è tutto qui; c’è molto di più potente e cruciale in ballo, dentro questo “Gravity”, che non il “semplice” panico da vuoto cosmico che caratterizza l’universo al di fuori della nostra atmosfera.

Bisogna dargliene atto: Cuaron mette in scena un film veramente tosto e cazzutissimo.

Tecnicamente, ogni dettaglio risulta semplicemente superbo ed ammaliante. 
Costantemente regna la sensazione che anche il più microscopico e marginale particolare sia stato, comunque, accuratamente studiato e perfettamente realizzato: viti che fluttuano; lacrime che galleggiano; esplosioni mute (già, perché nello spazio non c’è nulla che trasporti il suono); corpi sbalzanti e rimbalzanti; detriti cosmici che viaggiano come proiettili in totale assenza di inerzia… l’odissea, questa volta, non è una direzione astrale verso i confini estremi dell’universo; nessuno insegue la sfida, che fu di Ulisse, di oltrepassare i limiti del conosciuto. Lo spazio non è una rotta, ma un mero – pur bellissimo – contenitore.
Cuaron descrive l’Uomo: le sue Paure, i suoi Moventi e le sue Reazioni. 
Solo che, per mettere in scena l’introspezione più intima dell’animo umano, ricorre all’espediente opposto: l’immensità infinita dell’universo. 
Non è un viaggio di conoscenza verso l’esterno, ma assolutamente verso l’interno.


Il pretesto narrativo è costituito da una semplice missione volta ad aggiustare, o attivare o testare (sinceramente non mi ricordo, ma ha veramente nessunissima importanza) un qualche marchingegno dentro una specie di nave-satellite… un equipaggio di esperti astronauti fa da scorta ed accompagna la missione della dottoressa Ryan Stone (la veramente sorprendente Sandra Bullock), che sta portando a termine il progetto sul quale ha speso anni della propria vita e dentro il quale si è rifugiata per il dolore della perdita più grande e devastante, quella della figlioletta di quattro anni rimasta uccisa in un banale incidente domestico.

Ovviamente, come in ogni blockbuster americano che si rispetti, al minuto dodici succede il patatrac: l’esplosione di un satellite – puntuale come un orologio svizzero – produce una pioggia di detriti che investe l’equipaggio falcidiando completamente strumenti, mezzi e persone e rendendo impossibile (o, quantomeno, assai improbabile) il rientro sulla terra.


All’impatto, sopravvivono solo due persone. La dottoressa Stone e Matt Kowalski, l‘astronauta a capo della missione (un George Clooney, al suo peggio in carriera)…

Qui il film si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima regna lo spaesamento e la paura dell’ignoto. Dopo l'impatto coi detriti, la straordinaria e struggente bellezza del cosmo infinito muta improvvisamente in puro terrore. Da questo punto di vista, il regista ha operato da dio, dilatando con lunghissimi piani sequenza il senso del tempo e dello spazio e la loro mortale inesorabilità. 
Non è tanto una questione di agorafobia, quanto la prospettiva di vagare senza meta per l’eternità ad essere terrorizzante. Di più. È la sensazione della propria impotenza rispetto agli elementi, ai desideri ed alla volontà; è la mancanza di appigli, di punti cardinali, di gravità - appunto -  ossia di qualcosa che in qualche modo possa dare una direzione verso cui tendere o alla quale opporsi.
Lo spazio è una prigione senza sbarre, senza porte, senza guardie e in cui non valgono le normali leggi che governano le nostre vite: il tempo smette di essere tale; finisce la sua funzione convenzionale e torna ad essere un eterno ed agghiacciante presente; le “nostre” leggi fisiche non funzionano lassù: o meglio, funzionano perfettamente, ma con effetti completamente differenti: l’assenza di gravità; la mancanza di alternanza tra giorno e notte; il silenzio assoluto ed assordante… Nello spazio, tutto è diverso. Nello spazio, non c'è vita. L’immensità è una visione meravigliosa che atterrisce e paralizza. Viene da lasciarcisi abbandonare; viene da cedervi e smettere di opporre resistenza.
Matt Kowalski, che pure avrebbe ragioni per non farlo, accetta la deriva e si abbandona al vuoto.
E la dottoressa Stone? nessuno a casa che l’aspetta; sua figlia è morta; il suo lavoro ed il suo progetto sono andati distrutti con la pioggia di detriti. In fondo in fondo, chi glielo fa fare? Perché lottare? Perché, semplicemente, non lasciarsi andare…?


Ed è qua che il film diventa straordinario. Perché nella seconda parte, passata la comprensibile paura iniziale, la Stone decide che non vuole saperne un cazzo di cedere alle lusinghe dell’immenso spazio senza confini; con una determinazione rara ed encomiabile ritrova il suo baricentro; reagisce alla propria vita; rinasce e si dota di nuovi moventi… in altre parole, ritrova la propria gravità! 
E la propria gravità le impone, le ordina, le intima un solo comandamento: sopravvivere, sopravvivere, sopravvivere; ad ogni costo, con tutte le forze, contro ogni pronostico ed avversità. SOPRAVVIVERE!

Perché la vita, in fondo, è questo: opporsi oppure cedere al vuoto. Trovare la propria direzione e le proprie motivazioni, oppure smettere di lottare e perdersi, lasciandosi galleggiare e trasportare alla deriva. 
Ci saranno sempre sfighe, avversità, calamità devastanti e terrificanti. Ciò che ci definisce è come sappiamo reagire. La sfida della Bullock è una sfida senza speranza e, forse, senza senso. Le probabilità a proprio favore stanno praticamente a zero. Non ha alcuna esperienza. È sola. I mezzi che forse le permetteranno di provare a fare qualcosa che quasi sicuramente la farà ammazzare sono quasi irraggiungibili e quasi sicuramente inutilizzabili. Eppure, non si da per vinta. Eppure, si attacca a tutta la propria rabbia, a tutta la propria fotta e a tutta la propria determinazione perché il suo istinto le impone una sola condizione: sopravvivi, sopravvivi, sopravvivi! E cosa si è disposti a fare per sopravvivere? Fino a che punto ci si può spingere in un’impresa titanica ed apparentemente impossibile? Cuaron ci dice che si può arrivare persino a credere di poter riuscire a tornare a casa dallo spazio senza mezzi adatti, senza preparazione tecnica, senza una possibilità al mondo. Perché la sopravvivenza dura tutto il tempo della lotta. Non è il raggiungimento dell’obiettivo, ma l’opposizione alla passività. Sopravvivere (e, quindi, vivere) è avere uno scopo e perseguirlo.

Ecco, mi piace pensare che Cuaron non abbia motivato l’abnegazione della propria eroina semplicemente per la paura della morte (che, come detto, le sarebbe pure stata gradita al punto di cercarsela anticipatamente…), quanto per il fervido rifiuto della propria passività.

Perché col cazzo che mi do per vinto! Perché non mi avrete senza lottare!



Voglio leggere il film come la storia della gravità che si oppone alla sua assenza. Di più! La bramosia per una forza attrattiva che ci salvi dalla vocazione al vuoto. Il peso di una scelta che sappia replicare alla leggerezza dell’inerzia. Il coraggio che si oppone all’indolenza, più che alla paura. Ribadisco: non è una questione di reazione al panico. È una vera e propria presa di coscienza. Non è la vita che si oppone alla morte, ma il senso della vita che si oppone alla sua mancanza. 
Scegliere di vivere implica l'essere disposti ad accettarne e sopportarne il peso.

La Bullock mette in atto un’impresa disperata ed impossibile mossa dalla convinzione che questo possa essere il vero senso della propria vita: non tanto perché è convinta di riuscire a tornare sulla terra, quanto per non voler morire prima di averci provato.
Non agire in base alle probabilità, dunque, ma in base all'urgenza di non poter far altro.
(spoiler: in questo senso, la nuotata finale assume caratteri fortemente simbolici e straordinariamente efficaci).

Peccato solo che Cuaron non abbia avuto le palle, o l’ambizione, di guardare esclusivamente a Tarkovsky invece che strizzare l'occhio a Spielberg.

Perché il film, purtroppo, ha delle cadute (oggettive seppur perdonabilissime) che non gli permettono di raggiungere l’Olimpo dei capolavori assoluti. Alcuni momenti risultano, francamente, troppo mielosi ed eccessivamente retorici (la storia della figlioletta morta, ad esempio, viene un po’ abusata); ma è soprattutto il personaggio di Clooney che stona e che non c’entra un cazzo di niente con tutto il resto. Capisco le esigenze produttive; capisco che mettere Clooney in cartellone garantisca incassi e potenzi l’attrativa dello spettatore medio. Ma santo dio. Se proprio lo devi infilare, almeno usalo bene. Il suo personaggio è semplicemente inutile. Peggio, è dannoso e fastidioso. Ribadisco, il film resta portentoso ed eccezionale (va visto al cinema, assolutamente), ma queste piccole-grandi cadute ne guastano (peraltro gratuitamente) la portata epica.




GIUDIZIO SINTETICO: Visivamente straordinario. Clooney da fucilazione. Intenso e potente. A tratti terrorizzante. Piccoli difetti che gli si vuole perdonare. Comunque, avercene.

VOTO: 7+




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