10/03/14

LA GRANDE BELLEZZA (di Paolo Sorrentino)




Per  una volta, consentitemi di anticipare il giudizio sintetico e togliermi subito il dente, in modo tale che io possa poi argomentare in santa pace, senza rotture di coglioni da parte di gente che mi interrompe ogni due per tre domandandomi si, si, ok, ma il film com’è…? Il film è una boiata pazzesca!!! Con tre punti esclamativi!!! È arrogantemente pretenzioso, inutilmente letterario, eccessivamente ridondante, drammaturgicamente inconcludente, intellettualmente inesistente; è del tutto vuoto, inutile, sterile, nonché privo del benché minimo collegamento alla realtà contemporanea di cui - a suo modo - vorrebbe farsi paradigma e manifesto. 

Ma ci arriveremo...

Sorrentino è peggio di Austin Powers… nel senso che quello, almeno, aveva la scusa di essersi ibernato nei coloratissimi anni ’60 ed essersi risvegliato nei grigissimi anni '90, per cui non aveva neanche tutti i torti a idolatrare la swinging London dei vecchi tempi, anche a costo di trasformarsi nello stereotipo eccessivo e un po' patetico di se stesso e del mondo che rimpiangeva, di cui era, comunque, originale interprete ed alfiere.
Sorrentino, invece, non è stato tenuto in freezer per cinquant’anni, per cui non ha scuse... non ha scuse per gli atteggiamenti pseudo-esistenzialisti che fanno tanto Parigi anni cinquanta, ma che non gli appartengono per natura, profondità e formazione culturale e con i quali dimostra di non essere affatto a proprio agio, non avendo mai quella lucidità e spietatezza e onestà di analisi che fu propria dei cugini transalpini; non ha scuse per scimmiottare un Cinema del Passato del quale sembra conoscere solo la forma, ma non la sostanza; non ha scuse per quello sguado che non sa assolutamente guardare e che si limita a raccontare la Roma di oggi, come altri raccontavano l'Italia di Ieri, non capendo che il plagio di formule espressive, per quanto di sicuro impatto e di facile presa, non valga a mascherare e compensare la mancanza di cose da dire; non ha scuse per aver costruito un universo umano che non è rappresentativo di nulla e che, per giunta, nemmeno conosce a fondo; non ha scuse per la paraculaggine - questa sì tipicamente italiana, attuale e contemporanea - di non assumersi alcun rischio, di non pensare con la propria testa, di guardare sempre con gli occhi di qualcun altro; non ha scuse per la messa in scena di questa interminabile, ridondante e triste cartolina, che vorrebbe essere una fotografia intellettuale e profonda dell'Italia, ma che dà tanto l'impressione di un bel "Saluti da Rimini" sovraimpresso all'immagine di una popputa teutonica intenta ad addentare tutta sorridente una grassa piadina, mentre lo squacquerone le gronda sulle tette.


Sorrentino vorrebbe tantissimo essere in grado di sedere al tavolo dei Grandi del passato, ma con "La grande bellezza" ha dimostrato di saperne solo scimmiottare, e neanche troppo bene, le forme più esteriori.


Togliamoci un altro sassolino dalla scarpa: checché ne dicano tutti, “La grande bellezza” con “La dolce vita” non c’entra proprio un cazzo!!! Altri tre punti esclamativi, massì, siamo generosi…  Sorrentino, che deve essere modesto come il suo amato Maradona, ma con infinito talento in meno, è riuscito a fare persino di peggio che ispirarsi ad uno dei film capolavoro di Fellini, sentendosi piuttosto in dovere di "regalare" al mondo la sua versione di quello che, più che un film, è stato un testamento, un manifesto, un diario intimo, una confessione ed una struggente dichiarazione poetica di uno dei più importanti registi di sempre.
insomma, Sorrentino si è cimentato con uno dei film più personali, irripetibili ed intimi dell'intera storia del cinema, credendo che per riuscire a replicare una roba come “8 e ½” sarebbe stato sufficiente buttare quattro belle inquadrature a caso, centrare il film su un artistoide in crisi e circondarlo di un bestiario umano di freaks, snob, lacchè e puttane.
Ora, non ho nulla contro l'ambizione ed il coraggio, anzi... ma per realizzare un manifesto della tua poetica ed una sorta di grado zero della tua vita, della tua carriera e del tuo ruolo di artista DEVI quantomeno accertarti di avere effettivamente una poetica, una vita, una carriera e, soprattutto, la tempra e la statura dell'artista... E Sorrentino, con tutto il rispetto del mondo, non è nulla di più che un discreto regista, dotato di un po' di sbuzzo, con un paio di film discreti alle spalle ed una vita privata che più ordinaria non si può... pertanto, il regista napoletano toppa clamorosamente (e in modo scontato) non solo il confronto con uno dei capolavori assoluti del cinema di tutti i tempi, ma anche con l’operazione in sé, finendo per realizzare un filmetto senza capo né coda, totalmente privo di idee originali, assolutamente senz’anima e costantemente al limite del plagio.

E quando dico al limite del plagio, non lo dico nel senso che lo ricorda… lo dico nel senso che è UGUALE, solo che in versione brutta.


 


 




Sorrentino è uno dei registi più sopravvalutati del mondo. Peggio di Ken Loach, il quale, almeno, ci mette tanta buona volontà e tanto impegno civile.
Sorrentino imita la forma di Fellini (“8 e ½”), prova ad evocare certe atmosfere erotico-decadenti di Visconti (“La caduta degli dei”), plagia il citazionismo postmoderno reso celebre daTarantino, ma dimostra di non possederne in alcun modo la sostanza e di non averne assolutamente compreso l’essenza. 

Ciò, ahimè, fa tutta la differenza del mondo.

Mi spiace veramente che, per parlare de “La grande bellezza”, non si possa prescindere dallo scomodare Fellini, il suo modo di fare cinema ed il suo modo di vedere il mondo. Mi spiace perché avrei veramente voluto non cadere nella trappola e non contribuire ad elevare la modesta statura di questo mero compitino mediante il suo raffronto con i capolavori veri. Tuttavia, in questo caso, l’operazione di Sorrentino è talmente smaccata da risultare infestante, per cui occorre farsi coraggio e andar giù duro di mannaia, cercando di estirpare ogni briciolo di dubbio: “La grande bellezza” sta ad “8 e ½” come “2001: Odissea nello spazio” ad un film della Asylum… con la differenza che la Asylum ha l’onestà intellettuale di ammettere apertamente di stare producendo una puttanata galattica, girata con gli effetti schifi del Commodore 64, in quattro e quattr'otto e con un protagonista di solito trovato all’ufficio di collocamento per ex alcolizzati; il tutto, nel tentativo urlato di sfruttare biecamente e dichiaratamente l’hype di qualche grossa produzione della quale, talvolta, riesce persino ad anticipare l’uscita .
Sorrentino, invece, si sente artista... o, almeno, si spaccia per tale.
Sorrentino rifà Fellini, ma ne realizza solo la bieca parodia.


Fellini, infatti, ha sempre messo in scena la PROPRIA personalissima visione del mondo: un universo fatto a misura di Romagna, popolato da personaggi fantastici, eppure assolutamente VERI; un universo femminile composto da donne di ogni specie, età, forma, razza e colore, tutte immancabilmente adorate ed amate dal regista riminese… e poi il rimpianto dell'infanzia, il mistero e l’avventura della giovinezza, la complessità e la mediocrità del mondo degli adulti; il ritratto spietato e dolcissimo di un certo provincialismo italiano in cui politica, religione, sesso, qualunquismo, mondanità, ambizione, meraviglia convivevano amabilmente senza curarsi dell’ossimoro… Fellini era Fellini. Contro tutto e tutti ha sempre provato a fare solo il SUO cinema, ha sempre raccontato le SUE donne, i SUOI amori, la SUA poetica… Forse non c’è sempre riuscito e non ha sempre prodotto capolavori. Ma ne ha girati comunque a sufficienza per almeno due o tre carriere.

Sorrentino ha creduto di poter ridurre Fellini a semplice formula. E questo, per il sottoscritto, costituisce un peccato molto più grave ed imperdonabile dell'aver semplicemente realizzato un brutto film. Sorrentino ha preso la forma e l’estetica felliniane e le ha taroccate per raccontarci una storia sconclusionata e priva del benchè minimo interesse. Così, al posto di tabaccaie poppute, ci ha messo una Serena Grandi cocainomane; al posto della straordinaria “Gradisca”, ci becchiamo la Ferillona in perizoma; la Cardinale diventa l’Ardant, in una scena che non ha il benché minimo senso estetico e funzionale; il regista in crisi esistenziale alle prese con il proprio passato diviene lo scrittore annoiato che si è smarrito nella mondanità della capitale; e poi tutto un esercito di saltimbanchi, nani, matti, preti, puttanoni, servi accondiscendenti e mediocri interlocutori… non manca nulla ne “La grande bellezza” che non sia stato già dentro ad un qualunque film di Fellini (che sia “Amarcord”, “8 e ½”, “Roma”, “Il Satiricon” o quel che vi pare); ma in realtà manca TUTTO. Sorrentino fa Fellini, ma non è Fellini. Per far QUEL CINEMA LÌ, devi avere quella visione del mondo, devi aver amato tutte quelle donne, quel mare, quella provincia italiana piccola e ottusa, ma anche incredibilmente ricca, vitale, energica, ambiziosa, libera, spregiudicata, infantile, lasciva, amabile ed odiosa, insopportabile ed irrinunciabile, soffocante ed esaltante, di cui tutti noi, Sorrentino compreso, facciamo parte. Fellini non è mai stato tenero con l’umanità che descriveva, ma è sempre stato riconoscente, amorevole e pieno di affetto… perché anche il più infimo ed intollerabile dei suoi personaggi costituiva sempre una parte di sé, della sua vita, del suo carattere… perché un grande autore finisce sempre per parlare di quel che meglio conosce e per mettere in scena se stesso.

Fellini, in tutte le sue sfaccettature, era il girotondo di “8 e ½”, che, tra parentesi, costituisce uno del finali più belli dell’intera storia del cinema. Era ogni personaggio della giostra, ogni singola comparsa, ogni figura che si nascondeva sullo sfondo. Fellini raccontava il mondo che conosceva meglio, così come lo vedevano i suoi occhi. Senza filtri. Anzi, raccontava e scomponeva se stesso dentro un circo sterminato di personaggi, ognuno dei quali era una parte di sé o una pedina della sua formazione di uomo. Sempre con un grandissimo spirito critico, ma, soprattutto, con una struggente capacità autocritica.
Ma se non SEI così, lascia perdere. Se non VEDI così, fai altro. Se ti chiami Sorrentino, non fare Fellini. Anzi, non ti azzardare nemmeno ad ambirlo. Perché puoi ingannare i tonti, vincere gli oscar, crogiolarti negli elogi della stampa più accomodante e guadagnarti la fama giusta per girare i prossimi due spot della Fiat… ma, dentro, nel profondo, nell'intimità della tua coscienza... lo sai di non aver un cazzo da dire.


Sorrentino, contrariamente al Maestro riminese, non si mette al livello dei suoi antieroi; non partecipa ai loro "trenini" sulle terrazze romane; non si identifica in nessuno dei suoi personaggi, che invece maltratta e condanna con lo sprezzo di chi si sente diverso e migliore.

Sorrentino è molto abile a prendere appunti e sa copiare piuttosto elegantemente (questo gli va riconosciuto), ma chi si limita a copiare può solo ingannare la maestra sciocca, non certo pretendere di imparare qualcosa.

Sorrentino è quanto di più vicino esista al cinema di Tarantino. Ha costatemente dimostrato di aver compreso e saputo fare propria, più di ogni altro, la lezione del geniaccio di Knoxville. Il regista napoletano, infatti, si approccia al cinema in modo postmoderno. Gioca coi generi; li riscrive; li riadatta ad un nuovo contesto: Noir esistenzialisti senza gangster, biopic come spaghetti-western. Citazionismo dotto, ma in questo caso, ancora una volta, fine a se stesso. 
Il problema, ancora una volta, è che non puoi limitarti a fare Tarantino… devi essere lui, devi sentire come lui, devi amare qual cinema e quel modo di girare come lo ama lui. E poi devi avere le palle di andare fino in fondo: “Il divo”, da questo punto di vista, resiste per soli venti geniali minuti, ma poi molla il colpo e si ammorbidisce quando avrebbe invece dovuto impennarsi; “La grande bellezza” nemmeno ci prova.

La Grande Bellezza” è un film inutile e pretenzioso. Come l’Italia che descrive, è fatto di vuoto e gira intorno al vuoto. Il problema è che lo è suo malgrado; nel senso che non si pone come raffinata provocazione intellettuale e non dimostra la benchè minima capacità autocritica; al contrario, lo sguardo del regista si eleva costamtemente sul piedistallo della retorica di più bassa lega. Il film (e, quindi, il regista) è infatti intollerabilmente superbo. La macchina da presa è sempre in una posizione sopraelevata rispetto all’umanità che descrive (Roma è osservata dall'alto di spendide terrazze, dai ponti sul Tevere, dai palazzi della città eterna). Sorrentino non scende mai al livello dei suoi personaggi, non si identifica con essi e neppure si abbassa a ballare in trenino con loro; il regista è costantemente un giudice superbo e poco magnanimo, che si diverte a prendersi gioco delle proprie creature e a metterne alla berlina le più infime debolezze. Non c’è affetto per nessuno dei personaggi del film, perché non si può amare chi non si conosce. Peggio, non si può amare chi non esiste e quelli de "La grande bellezza" non sono uomini in carne e ossa... sono statuine del presepio che ne imitano le fattezze ed i lineamenti.


Il film è un gran segone mentale, costruito su personaggi che non vanno da nessuna parte (esattamente come i loro "trenini") ed incentrato su un protagonista drammaturgicamente insulso: chi è Jep Gambardella? cosa vuole? dove va? Nessuno lo sa veramente, perchè, in realtà, a nessuno importa una cippa; meno che mai a Sorrentino, il quale è talmente impegnato a perdersi dietro allo sfoggio della propria cultura (Celine, Breton, Flaubert, su tutti) da non accorgersi che il suo personaggio rimane sempre lo stesso per tutto il film. Jep non cresce, non evolve, non muta mai atteggiamento. Potrebbe essere una scelta consapevole, persino coraggiosa, ma l'impressione è che sia un difetto ontologico di un personaggio mal scritto e assai poco sentito. Del resto, anche nei precedenti film Sorrentino aveva sempre dimostrato dei forti limiti di scrittura nella costruzione dei propri personaggi: insomma, pensate all'Andreotti de "Il divo" e ditemi se, al di la della raffinatezza della cornice, può essere veramente tutto lì il ritratto dell'uomo più influente, potente ed onnipresente della Storia italiana degli ultimi sessant'anni. Sorrentino ha il difetto di rimanere sempre in superficie e di non riucire a raggiungere mai il cuore e l'anima dei propri personaggi il che, per un regista che si sente Autore e che si scrive pure i film, è un difetto grande come una casa.
Ma mettiamo pure che Sorrentino abbia effettivamente e consapevolmente voluto costruire un film VUOTO come precisa provocazione intellettuale e come paradigma della vacuità delle nostre esistenze... il film risulterebbe comunque profondamente sbagliato.

È sempre una questione di misura: troppe citazioni, troppi intellettualismi gratuiti... c'è troppo di tutto per non voler dire nulla. Le batturte dei personaggi, la dedica in avvio, la voce fuori campo, persino il mestiere del protagonista... Tutto, nel film, è un enorme cartellone luminoso con la scritta: marò, ma quanto so bbuono e quanto so bbravo, cito pure Flobbèr... Troppo, troppo, troppo. È troppo per essere una raffinata e studiata provocazione. Sorrentino è sicuramente uomo preparato e di cultura, ma il film che ha realizzato è un insulso, gratuito e ridondante sbrodolamento di aforismi letterari, citazioni cinefile e seghe intellettuali, che non vanno da nessuna parte. Manca un'idea precisa di dove il timoniere voglia andare a parare... l'impressione di fondo è che Sorrentino spari costantemente a salve.

Il film racconta il tedio ed il vuoto di una borghesia ricca e svogliata, radical chic e mondana, annoiata e colta. Può fare tutto, ma non le piace niente. Divisa tra vernissage, performance artistiche, convivi intellettuali e feste sfarzose, questa umanità spreca la propria esistenza nel tentativo di riempire lo spazio tra uno sbadiglio e l'altro. E, come Narciso, si perde ad ammirare se stessa. L’Italia contemporanea mi sembra invece popolata da gente povera e senza prospettive; impiegata in attività sottopagate e lavori di merda; completamente dimentica della bellezza e vittima delle mostruose bruttezze degli infiniti nonluoghi che si sviluppano, come masse tumorali, nelle coste, nelle campagne, nelle periferie, nei centri storici; vivo un’Italia di valori azzerati, di prospettive annientate, di gente che ci mette tutta sé stessa e di gente che gliel’ha data su da un pezzo. In tutti i casi, non è gente che si annoia a fare un cazzo, organizzando festini milionari, passeggiando sulle rive del Tevere e trastullandosi a fare trenini su terrazze chilometriche con vista Colosseo.

Se, e dico se, Sorrentino avesse voluto costruire un'enorme pippone simbolico, in cui la descritta umanità costituisse in effetti la rappresentazione del declino della grandiosità e della bellezza che fu e che ora si è persa... ancora una volta il tentativo sarebbe stato assai interessante, ma comunque realizzato malissimo. Manca l'idea che Jep, Verdone, Buccirosso e compagnia cantanti siano mai stati dei Grandi la cui Bellezza si è andata via via offuscando e perdendo. E, ancora una volta, manca l'autocritica. Dal momento che il regista si pone - e come lo fa! - da Intellettuale, egli per primo avrebbe dovuto interrogarsi sul proprio ruolo e sulle proprie responsabilità rispetto alla grande bruttezza morale ed esistenziale raggiunta dall'umanità che abita la sua stessa terra. Non farlo e limitarsi ad attribuirne la colpa agli altri, è quasi peggio che esserne complici.



GIUDIZIO SINTETICO: Sorrentino racconta l’Italia che non c’è a persone che l’Italia non la conoscono affatto. Fotografa stereotipi e li spedisce, come fossero cartoline, agli ammerricani che amano così tanto la nostra pizza-mafia-mandolino. Oscar meritatissimo.

VOTO: 4





2 commenti:

  1. Ammazza, massacrato.
    Io, invece, l'ho trovato un grande film che racconta una certa purtroppo presente Italia, e decisamente migliore del sopravvalutato This must be the place.
    Detto questo e con tutti i suoi difetti, inoltre, Sorrentino gira veramente da dio.

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  2. condivido molto di quello che hai scritto, ma il tuo giudizio mi sembra severo, troppo severo

    secondo me il riferimento così sfacciato a "la dolce vita" è talmente evidente da essere deliberato
    fellini creò un ritratto dolce-amaro della nostra capitale: la decadenza era palpabile, ma c'erano poesia, magia e istinto
    sorrentino ci mostra invece una realtà dove non ci sono più e il ritratto è amaro-amaro: non c'è niente dentro e non c'è nulla fuori

    quello che rimane, la grande bellezza, è immobile e lontana

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