10/12/12

PIETA' (di Kim Ki-duk)



L’esattore di un usuraio della mala coreana (emotivamente insensibile al dolore delle proprie vittime e carico d’odio per essere stato abbandonato dalla madre alla nascita) si aggira per una Seul cinerea e poverissima, scovando tra case popolari e botteghe sfasciate i propri debitori insolventi ai quali infligge tremendi supplizi fisici e morali: chi non può restituire i soldi viene infatti umiliato, seviziato e storpiato. Il risarcimento assicurativo del danno inflitto coprirà i crediti del nostro gambizzatore.

Il suicidio di una delle vittime, tuttavia, innesca un processo di atroce vendetta...

Per Ki-duk il vero dolore è la perdita dell’oggetto amato. Chi ama veramente è disposto a sacrificare la propria vita: così è per la “lady vendetta”, così per il gambizzatore, così per buona parte dei miserabili debitori che per risparmiare umiliazioni e sofferenze a mariti, mogli, madri e figli accettano l’inevitabile tortura.


Il vero tema centrale del film è l’odio furibondo, atavico e immenso che guida l’umanità: tutti i rapporti umani che vengono raccontati sono analizzati sotto la lente deformante dell’odio: marito-moglie; figlio-madre; povero-ricco; vittima-carnefice; estraneo-estraneo.
Non c’è relazione, rapporto o semplice incontro casuale che non venga travolto dai risentimenti e dalle ragioni di rancore. In questo senso il film è totalmente “celiniano” e il riferimento alla pietà del titolo vagamente ingannevole.

Seul è cinerea e buia; volutamente irriconoscibile e, quindi, paradigma di tutte le città del mondo; lo steso dicasi per le abitazioni e le botteghe che, nella loro grigia miseria, assomigliano alle topaie in cui razzolano tutti i poveri del mondo. L’odio è universale e regna sovrano!



La fotografia e la luce sono magistralmente utilizzate in senso retorico e drammaturgico; lo stesso dicasi per gli splendidi movimenti di camera che descrivono, pur senza enfatizzare, lo stato d’animo dei personaggi e le loro reazioni fisiche ed emotive.


Difetti: la narrazione prosegue eccessivamente per salti e singhiozzi. Fondamentali snodi di trama o radicali metamorfosi interiori dei protagonisti vengono descritti e risolti in modo brusco e frettoloso (da noi si direbbe “con l’accetta”, tanto per rimanere in tema).
Il cinema asiatico ci ha sovente abituato a trame non lineari ed evoluzioni morali assai improbabili: questo non sempre costituisce un difetto ed, anzi, talvolta permette di eliminare ellitticamente interi blocchi di trama che, pur apparentemente necessari, risultano poco interessanti. Nelle produzioni asiatiche, anche commerciali, poco importa se alcuni passaggi narrativi restano oscuri o se di alcune trame non si capisce un cazzo: l’importante è che arrivi il senso complessivo del film.

Nel caso di specie, tuttavia, il film di Kim Ki-duk si regge esclusivamente sui cambiamenti emotivi dei propri protagonisti. Per essere credibile il finale (questo finale) deve essere credibile la premessa (che funziona bene) e la svolta centrale (che, invece, è frettolosa e poco credibile).
Inoltre, il colpo di scena finale è fin troppo scontato e prevedibile.



GIUDIZIO SINTETICO: a livello contenutistico, tutto è già stato detto ed è stato detto meglio in altri film (anche dello stesso Kim Ki-duk); a livello narrativo, “Old Boy” era maledettamente più cazzuto e cattivo e, soprattutto, era di dieci anni fa.

VOTO: 6+


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