14/02/14

THE WOLF OF WALL STREET (di Martin Scorsese)





Tre ore abbondanti in cui DiCaprio, "one man show", pennella uno di quei personaggi che fanno una carriera; a dirigere il tutto c'è un signore che si chiama Martin Scorsese, che è sempre un bel vedere, il quale si sente talmente in palla da infilare nella soundtrack anche il pezzaccio più famoso di Tozzi.

Il biondino si è definitivamente emancipato dal ruolo di “cinno” buono solo per le ragazzine, anzi… il quasi quarantenne è un pezzo che si è messo a fare del buon cinema, regalando interpretazioni che, negli anni, si sono fatte sempre più convincenti… 

Scorsese, si sa, è Scorsese… mica vi devo raccontare io chi sia e cosa abbia fatto. Magari ultimamente ha perso qualche colpo e ha sfornato pure un paio di boiate, ma il proprio mestiere lo sa fare comunque dannatamente bene e anche quando non è al massimo della forma, gira comunque meglio di qualunqe pischello degli Studios: se cercate qualcuno che sappia raccontarvi una storia, muovere una macchina da presa e inchiodarvi alla poltrona… beh, LUI è il vostro uomo.

Ricapitolando: Leonardo DiCaprio, in stato di grazia, giganteggia a mani basse dentro un film costruito esclusivamente sul suo enorme carisma e sulla sua indiscutibile capacità di saper portare a casa il pulmino della scuola, guidando solo con la sinistra, di notte, completamente sbronzo, mentre tutti i bambini urlano e fanno casino.

Al suo fianco si accompagna un manipolo di caratteristi della madonna, di quelli che solo Hollywood sa sfornare (assieme a Cinecittà negli anni ‘70) ed un esercito di strappone, molto poco vestite e tutte belle cafone come piace a noi.

C'è pure spazio per il cameo di uno dei migliori attori del momento. Giusto per non farci mancare proprio nulla.


Insaporite con un sacco di fecola, pillole sballose, dollaroni a palate e senso del decoro da far impallidire anche Larry Flint.

Il tutto girato Scorsese-style.

Capolavoro, quindi? Ni, nel senso che il film funziona alla stragrande, diverte un sacco, ma, tutto sommato, esce dalla testa con la stessa velocità con cui è entrato. Il che non sarebbe per forza una tragedia. Voglio dire, mica è obbligatorio che un film sia per forza un capolavoro. Il problema, infatti, non è tanto del film in sé – che è buono, lo ripeto – quanto delle aspettative che gli crescono attorno. 
Mi spiego meglio. Se “The wolf of Wall Street” lo avesse girato un prezzolato qualunque, avremmo innalzato i calici e brindato di fronte alla godevolezza della pellicola. Da Hollywood, infatti, raramente esce qualcosa di diverso da bieca retorica e patetico sentimentalismo, per cui una storia basata sull’ossessione per la droga, il culto del denaro e la passione per la "fica depilata" (semplicemente grandioso il dialogo padre-figlio sul tema) è gradita come una ventata di aria fresca in un appiccicoso pomeriggio estivo… e pazienza se non è il film del decennio. Tutto sommato fa il suo onesto lavoro e porta abbondantemete a casa il risultato. 



Il problema è che Scorsese non è uno dei tanti prezzolati di Hollywood; di quelli, per intenderci, disposti a girare con professionale mestiere, ma senza un filo di anima, qualunque cosa passi loro il convento; dal vecchio Martin ti aspetti sempre che possa uscire il Capolavoro. Perché l’ha già fatto! E non una, non due… ma forse addirittura tre o quattro volte! In altre parole, nessuno al mondo va a vedere “The wolf of Wall Street”, ma tutti vanno a vedere l’ultimo film di Scorsese… che è diverso: non capiti in sala per caso; ci vai preparato, consapevole e carico come una molla, con le sinapsi belle attive e le aspettative a mille.
Insomma, non è come quando ti imboscavi a limonare con la compagna delle medie un po’ in carne e con l’apparecchio… della serie che se arrivavi in seconda base, viva; altrimenti sfiga e tutti felici a giocare a pallone… andare a vedere un film di Scorsese è come avere un appuntamento piccante con Eva Henger… fosse anche per soli dieci secondi, vuoi provare il brivido di sentirti un novello Siffredi… Ecco, Scorsese ha un po’ quell’effetto lì. Non ti basta un film onesto, che sappia fare il suo lavoro con dignità e che sia capace di tenerti davanti allo schermo per più di tre ore senza che nemmeno te ne accorgi. No, quello che vuoi è sempre il filmone della vita e, purtroppo, “The wolf of Wall StreetNON è quella roba lì.

Intendiamoci, il film funziona: è divertente, è fuori di testa, è girato da dio, gli attori sono in palla, DiCaprio è solidissimo, Jonah Hill è un cazzo di fenomeno e Margot Robbie è veramente bravissima!
Solo che NON è un capolavoro e, se sei Scorsese, ciò equivale ad un mezzo fiasco. Un po’ come scoprire che la Henger è brava solo a farlo alla missionaria… 


Il film, come tutti sanno, racconta la pazzia degli anni d’oro di Wall Street e la storia vera di Jordan Belfort che, più di tutti, affinò la nobile arte di saper vendere la fuffa; oltre a sperimentare sul proprio corpo ogni eccesso praticabile e a scoparsi qualunque cosa respirasse e capitasse a tiro.
Soldi; Donne; Droga; Potere; il film è un’altalena folle e vertiginosa che - in pieno stile Scorsese - racconta in modo esaltato la immorale esistenza del suo antieroe.
Ma solo gli americani, che sono dei tordi bigotti, ci sono cascati, scandalizzandosi per il fatto che Scorsese avesse costruito il proprio film raccontando la storia dal punto di vista di BelfortScorsese, è vero, non giudica il proprio personaggio. Ma lo fa la Storia, visto che – SPOILER – alla fine DiCaprio viene beccato e finisce al gabbio. Morale: all’ascesa senza scrupoli consegue sempre una rovinosa discesa.
A Belfort, nello specifico, poteva anche andare peggio, visto che il tradimento di amici e conoscenti gli ha permesso di scontare una pena tutto sommato breve e di riguadagnare parte del denaro perso con i diritti della propria autobiografia (il lupo, il pelo, il vizio...). Ma questo, nell'economia del film, viene sbrigato in quattro e quattr'otto, senza caricarsi di alcun significato catartico. Il film, nonostante tutto, è moralista perchè il male, alla fine, paga pegno. Punto.

Ora, che il troppo (proverbialmente) stroppi lo sanno anche gli asini… tuttavia, il punto non è tanto la banalità del messaggio. O della morale, che punisce (più o meno) chi si comporta male.


Il punto è che raccontare la vita di un broker di Wall Street come fosse quella di un tossico della balotta di Trainspotting, ossia descrivere la dipendenza dalla vertigine del successo finanziario ad ogni costo come si trattasse di alterazione da sostanze psicotrope, sarebbe stato avvincente e geniale trent’anni fa. Che il mondo di Wall Street fosse un universo di avidità, follia e immoralità non lo scopriamo certo grazie a Scorsese: “Wall Street” è dell’’87; “American Psycho” (il libro, perché il film fa cagare) è del 1991. Scorsese non solo non aggiunge nulla di nuovo, ma non raggiunge nemmeno la potenza destabilizzante dei due citati capisaldi, i quali, a loro modo, furono pure inquietantemente profetici. La differenza è saper raccontare le cose mentre accadono (o prima ancora che accadano), non dopo che sono accadute da un pezzo. La differenza - tanto per cambiare - è quella tra un Capolavoro e un buon prodotto.

Rimangono comunque dei bellissimi dialoghi, un gusto per l’eccesso grandiosamente barocco, un manipolo di attori veramente eccellente ed un battitore solitario in gran spolvero. Scorsese, lo ribadisco, gira in stato di grazia: i movimenti di camera sono fluidi, magistrali e assolutamente funzionali a raccontarci il senso della vita secondo Belfort, mentre se la spassa allegramente alla faccia di noi tonti che ci siamo cascati… ma non è abbastanza! Come detto, con il senno di poi, sono buoni tutti a raccontare che Wall Street era un covo di serpi accecate dall’avidità. Da un regista del calibro di Scorsese mi sarei aspettato un’esasperazione parossistica del concetto fino alla sua completa distorsione allucinogena. Scorsese si è limitato a raccontarci un mondo drogato dai soldi quando, invece, avrebbe potuto MOSTRARCELO. E per “mostrarcelo”, non intendo le scene tipo can can di broker e puttane negli uffici di downtown e nemmeno le serate passate a sfondarsi le narici di fecola e ad assumere pillole talmente micidiali da determinarne addirittura il ritiro dal commercio… Non è una questione di contenuti, ma di IMMAGINI. Terry Gilliam nel 1998 ha voluto dirci la cosa più banale del mondo: Uè, règaz, ma lo sapete che a cavallo tra gli anni 60/70 ci si drogava un botto? Bella scoperta, direte voi. Certo, ma riguardatevi “Paura e delirio a Las Vegas” per comprendere come il nostro geniale amico abbia saputo costruire il proprio film fottendosene altamente di ogni pretesa narrativa, di ogni intreccio di trama, di ogni escamotage drammaturgico per restituirci un unico, allucinato ed allucinante viaggio acido per immagini: tutto distorto, colori pazzeschi, recitazione sempre sopra le righe… il senso del film non era quello che raccontava, ma COME lo raccontava. Ecco. Scorsese, non è riuscito a fare altrettanto. Si è limitato a fare lo Scorsese ed a girare a là Scorsese. Il che va benissimo se hai storie del calibro di “Taxi driver” o di “Raging bull”, ma per roba come “The wolf of Wall Street” devi saperti rinnovare… 




GIUDIZIO SINTETICO: Scoppiettante, barocco, divertente e spettacolare. Di Caprio è gigantesco e tutto funziona alla perfezione. Ma i capolavori di Scorsese sono altri. Si esce dalla visione come da un’onesta trattoria: sazi, ma non stupiti.

VOTO: 6/7 





5 commenti:

  1. Devo dire che questa volta la recensione mi è piaciuta talmente tanto che l'ho riletta dieci volte, anche partendo da punti diversi. Così, per mescolarla un po'.
    Bravo Grande Redattore.

    E bravo Di Caprio: per fare tre ore a quel livello ti devi essere tirato su dal naso dieci piani di morbidezza! Ma di sicuro non ti giudico: anche Maradona pippava e guarda che fenomeno che era..

    Scherzi a parte, devo dire che condivido praticamente tutto della recensione.
    Manca solo una nota relativa alla grande differenza tra il primo e il secondo tempo e alla durata.
    E allora la aggiungo io che tanto il Grande Redattore lo conosco da Dio e sono sicuro che non si incazza per niente.

    Il primo tempo è una bomba: dialoghi spaziali, regia tiratissima, attori in uno spolvero mai visto (Matthew McConaughey dovrebbe cambiare cognome, ma sta diventando un vero mostro!!! Una chicca il suo cameo)‎.
    Sembrava di essere tornati indietro al grande cinema ritmato americano, quello che ti faceva dire "adesso vado a fare il lavoro che fa quello lì del film anche se non so neanche che cazzo faccia" per quanto era tutto figo.

    Poi nel secondo tempo, la narrazione si perde un po', diventa lenta, arranca: la botta tremenda a scoppio ritardato data dai "Limoni Riserva anni '80" dura una vita e mezza e alla fine perde del carisma che avrebbe potuto avere. E non basta certo un po' di slo-mo per tirarla su.
    Oppure le scene finali sul rapporto con la moglie, la figlia, l'Fbi e mia nonna in carriola. Troppo.

    Alla fine questa perdita di controllo tira il film fino a TRE ore. Dico TRE ore per raccontarmi quello che ci potevi mettere 90 minuti secchi. Primo e secondo tempo: bam! Non c'era bisogno di supplementari e rigori. E da un posto nella storia si passa alla finalina da campionato parrocchiale.
    Peccato questo.
    Ma il resto mi ha divertito.
    Io lo consiglio.
    Vado a mangiarmi un goldfish che ho un po' di fame!!

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  2. Quasi quasi chiudo il blog e lascio a te le rece... neanche a dirlo concordo in pieno! E, per una volta, non abbiamo nemmeno visto il film insieme. Grande T., sempre sul pezzo!!! Se ti avanza, tienimi un goldfish da parte... sai, la fame chimica...

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  3. recensione strepitosa....... una descrizione superba che ha colto in pieno l'iter emozionale dello spettatore (io).
    bravo .. quasi come ... "di caprio"

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  4. E alla fine Di Caprio resta ancora a bocca asciutta...
    Poverino, mi dispiace.
    Non ho visto Dallas Buyers Club, ma ho visto, come scrivevo, gli ultimi film di Matthew McConaughey ed è diventato davvero interessante. Immagino se lo sia meritato, almeno sulla fiducia.
    Certo, alla cerimonia era vestito una merda e aveva tanto di quell'eyeliner negli occhi che sembrava avere Renato Zero al seguito, ma lo perdoniamo perchè comprendiamo il percorso.
    Comunque, caro Leo, visto che sono sicuro che leggi questo blog, mi preme dirti: bravo lo stesso!

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  5. E' buffo che, da loro più grande detrattore, io mi sia pian piano trasformato in acceso sostenitore di Leonardo DiCaprio (prima) e di Matthew McConaughely (poi). E che i due siano stati i più credibili pretendenti all'oscar 2014.
    Il primo, da insopportabile teen idol si è trasformato in un attore a tutto tondo: completo, serio, CREDIBILE. Il secondo, da mero "uomo pettorale" ha saputo trasformarsi nell'attore più in forma del momento (con l'eccezione di Tom Hardy, che è l'attore più in forma di sempre). M.M. ha trovato l'illuminazione sulla via di Damasco, scoprendosi inaspetattamente attore VERO, capace di abdicare di punto in bianco ad una comoda, ma sciapa carriera "dramasen" in favore di ruoli sempre più estremi e bizzarri (non sempre mainstream); per giunta, senza MAI sbagliare nemmeno un colpo. Tra i due, DiCaprio risulta decisamente più professionale, McConaughely più talentuoso ed istintivo. Credo che DiCaprio, ancora una volta, abbia pagato il prezzo di interpretae un personaggio "scomodo" (per i canoni hollywoodiani), come gli era del resto già accaduto in passato con i vari Hoover, Gatsby, Hughes, Wheeler, Frank Abagnale Jr.. Non c'è niente da fare, Hollywood rimane l'industria più spregiudicata e moralista del mondo. Del resto, la statuetta dorata aveva definitivamente perso ogni credibilità per il sottoscritto il giorno che quella bischerata di "Forest Gump" aveva sbaragliato un film della madonna come Pulp Fiction. McConaughely interpreta uno stronzo, omofobo, sessita, tossico e razzista, ma si becca l'AIDS e riesce pure a trasformare il suo male nell'occasione di redimersi e di mettere in pratica quel self made man che è il vero e proprio culto nazionale. Statuetta scontata. O meglio, il premio a M.M. ci può pure stare, ma LDC, questa volta, è stato più attore. M.M. ha reso una grandissima interpretazione FISICA, ma mi chiedo - con grande onestà - se sia effettivamente necessario (e lodevole) perdere 25 chili per riuscire a rendere un malato terminale, oppure se basti perderne cinque e saperlo recitare da dio comunque... da dietrologo quale sono, ho sempre il sospetto che queste operazioni di attori che si consumano dentro un personaggio finiscano per essere più degli specchietti per le allodole per il pubblico beota, che delle vere e proprie performance attoriali. Della serie: andiamo a vedere il fim dove quel figo di McConaughely (o di Bale o di Fassbender) smagrisce fino a rischiare di crepare... Non so, DiCaprio ha sempre la stessa faccia e lo stesso fisico in tutti i film, eppure ha interpretato decine di personaggi diversi ed è SEMPRE risultato fenomenale (almeno da una decina di anni a questa parte)... invito solo a pensarci. Ma ribadisco: McConaughelly IDOLO e bravissimo, ma lo preferisco tutta la vita in Killing Koe piuttosto che in TBC (acronimo da niente...).
    PS
    Certo che Leo legge il blog... è abbonato e paga pure delle pesanti mazette per avere recensioni di favore... ma qui vince solo il cuore, non il portafogli... anche se le mazzette le intasco volentieri lo stesso!!! Bella Leo!!!

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