« Brama d'esser grande tu l'hai e l'ambizione non ti manca; ma ti manca purtroppo la perfidia che a quella si dovrebbe accompagnare.
[...] Ma affrettati a tornare, ch'io possa riversarti nelle orecchie i
demoni che ho dentro, e con l'intrepidezza della lingua cacciar via a frustate
ogni intralcio tra te e quel cerchio d'oro onde il destino e un sovrumano aiuto
ti voglion, come sembra, incoronato.» (Macbeth).
Dopo la parentesi di “Drive”, che forse rappresenta la più
riuscita e meravigliosa marchetta dell’intera storia del cinema, Refn torna a
fare Refn ed a sbattersene bellamente dei fans (o presunti tali) e dei critici
(o presunti tali) per dedicarsi alla sua attività preferita: fare film come cazzo
gli pare.
Pertanto, “Only god forgives”, a differenza di quanto si legge e si dice in
giro, non è affatto un fallimento; non è una delusione; e, soprattutto, non può
rappresentare alcun tradimento.
Già, perché Refn non ha letto
proclami, non ha fatto promesse, né ha
stretto patti di sangue con chicchessia.
Refn è un autore geniale che un giorno ha inconrato un fortunato produttore di Hollywood; i due si sono piaciuti ed hanno fatto insieme un film della madonna. Finito il film, ognuno per la propria strada; giusto il tempo di una paglia e quattro chiacchiere di circostanza.
A volte capita! A volte la miscela produce il miracolo; altre, vien fuori "Double team". Che vuoi farci, è la vita!
In ogni caso, non puoi prendertela con Refn se sa fare il suo mestiere (anche quando gira su commissione).
Se incontri in un locale equivoco la tua bravissima preferita e finite sbronzi a fare robe per tutta la notte, è probabile che ti divertirai un mondo; se poi al mattino quella si alza, ti da un bacio sulla fronte e se ne va senza lasciarti il numero di telefono, devi comunque ringraziare tutti gli dei dell'Olimpo per essertela spassata alla stragrande o, al limite, per non esserti risvegliato con inquietanti scritte di rossetto sullo specchio e con qualche organo in meno… se invece ti costruisci tutto un viaggio mentale e ti aspetti di portarla a pranzo dai tuoi per programmare le prossime nozze, sei TU che hai dei problemi e non LEI che ti ha deluso tradendo le tue aspettative.
A volte capita! A volte la miscela produce il miracolo; altre, vien fuori "Double team". Che vuoi farci, è la vita!
In ogni caso, non puoi prendertela con Refn se sa fare il suo mestiere (anche quando gira su commissione).
Se incontri in un locale equivoco la tua bravissima preferita e finite sbronzi a fare robe per tutta la notte, è probabile che ti divertirai un mondo; se poi al mattino quella si alza, ti da un bacio sulla fronte e se ne va senza lasciarti il numero di telefono, devi comunque ringraziare tutti gli dei dell'Olimpo per essertela spassata alla stragrande o, al limite, per non esserti risvegliato con inquietanti scritte di rossetto sullo specchio e con qualche organo in meno… se invece ti costruisci tutto un viaggio mentale e ti aspetti di portarla a pranzo dai tuoi per programmare le prossime nozze, sei TU che hai dei problemi e non LEI che ti ha deluso tradendo le tue aspettative.
Ora, non sto dicendo che Refn sia in realtà Jenna Jameson e nemmeno che sia un uomo di facili costumi. Sto semplicemende dicendo che Refn, fuor di metafora, non è
quello di “Drive”: nel senso che non
è quello il suo cinema, non è quello il suo linguaggio e non è quella la sua poetica. “Drive” è stato
solo sesso… bellissimo, tostissimo, magico… ma nient'altro che sesso. In fondo non c'è niente di male; perciò mettetevela via e fatevene una ragione!
“Drive” è uno di quei film, meravigliosi e straordinari, che potevano fare malissimo al Cinema (in generale) ed a Refn (in particolare).
La visione di Gosling, taciturno e
cafonissimo distributore di baci romantici e mazzate micidiali, ha suscitato acclamazioni
fin troppo amplificate: all’improvviso era nato un genio! Chiunque si è sentito
legittimato a gridare al capolavoro! Il regista danese era riuscito nel miracolo di
accontentare tutti: intellettuali, critici, appassionati di film di menare, amanti
delle corse, sognatori romantici e tamarri di periferia con stuzzicadenti in
bocca. "Drive" è persino riuscito a ridare dignità all'uomo con lo stuzzicadenti! Il mondo aveva
trovato in Refn il suo nuovo dio ed in Gosling il suo profeta!
Hollywood ha ringraziato e
provato subito a fare cassa. Ma Refn, che è persona seria e uomo d’onore, ha
declinato gentilmente l’offerta dicendo che era interessato ad altro, ossia a
fare questa roba qua che è il film di cui stiamo parlando.
Ma quelli degli studios, si sa, sono
duri di comprendonio e quando sentono l’odore dei soldi chi riesce più a farli
ragionare? Perciò, in quattro e quattr’otto, ecco buttato in pasto al pubblico
adorante (e pagante) un prodotto-clone come “The place beyond the pines” (con tanto di Gosling a recitare la
parte di Gosling nel film di Refn).
Lo so! L’abbiamo già visto succedere.
Conosciamo la dinamica. Sono vent’anni che ci propinano film di gangster in
cravattino che parlano come Bonolis e sparano con le pistole inclinate nella speranza di bissare quel capolavoro di “Pulp fiction”.
Guy Ritchie (che pure mi sta
simpatico) è la prova vivente che non basta copiare la cornice per rifare
Tarantino.
Cianfrance (che pure avrebbe
anche del talento) è la prova vivente che per fare i film di Refn devi essere Refn e chiamarti Nicolas Winding.
Diffidate, gente, diffidate! Diffidate
dei falsi idoli, dei falsi profeti, ma soprattutto guardatevi dai discepoli
improvvisati. Non che Refn non sia un genio; tutt’altro! Per quel che vale,
ritengo che sia uno dei più importanti ed influenti registi viventi. Solo che
non lo è grazie a “Drive” di cui “Only god forgives” non costituisce, né
ha mai voluto costituire, un sequel o un semplice clone.
Con “Only god forgives”, dunque, Refn ha salvato i prossimi vent'anni di Cinema castrando sul nascere
(si spera) l’odioso fenomeno dei prodotti-clone e delle repliche.
Con il suo ultimo lavoro, Refn realizza
un potentissimo film e dichiara
apertamente di non essere interessato alla possibilità di vivere di rendita; e
guardate che non è mica facile rinunciare alla tentazione di replicare se stessi
e guadagnare un botto di soldi facendo, per giunta, roba che sarebbe comunque di
due spanne superiore alla media di qualunque altro prodotto in circolazione.
Refn, dunque, prende Gosling e
gli costruisce attorno un personaggio taciturno e tormentato dai propri demoni;
ambienta il film in una metropoli notturna e barocca, illuminata da
fluorescenti neon rossi e blu; mette in scena estenuanti silenzi, pacche da orbi, katane tailandesi
e spiedini conficcati nelle carni e, in un colpo solo, scontenta milioni di
fans e la critica di tutto il mondo realizzando un'opera estrema, intensa,
potente, senza strizzatine d’occhio e ammiccamenti stilosi e, soprattutto,
distante anni luce dal film che ne aveva appena consacrato – con gli stessi
ingredienti – la fama internazionale.
Quindi, dimenticate “Drive”! Accantonate le inquietanti attrazioni morbose
per giubbini in finta-pelle bianca con scorpioni dorati cuciti sulla schiena. Abbandonate
la repellente seduzione esercitata da un raffinato poema kitsch metropolitano. Niente
romanticismi al vetriolo; niente notturni californiani; niente calcagnate in
faccia e corse su bolidi potentissimi. "Only god forgives" è TUTTA UN'ALTRA ROBA.
Refn ricomincia dove aveva
interrotto, riprendendo senza fare una piega il discorso iniziato con “Bronson” e poi proseguito con “Valhalla rising”. Il regista danese si
interroga (filosoficamente, socialmente, antropologicamente e psicoanaliticamente)
sull’Uomo e (artisticamente) sulle modalità per rappresentarlo.
Refn è tornato ad essere Refn, insomma; ossia un regista radicale e complesso, poco sensibile ai gusti del pubblico, estremamente consapevole e padrone dei propri mezzi espressivi e con una precisa idea di cinema in testa. Facile
fare l’autore radicale quando nessuno ti caga di striscio… dicevano i maligni. Sarà! Ma, dopo che
vinci il premio per la miglior regia a Cannes con un film su commissione che ha reinventato l’estetica pulp ed è piaciuto praticamente
a tutti, ci vogliono delle belle palle per fare come se niente fosse e tornare a girare roba come “Only god forgives”.
Questa roba qui, potete starne
certi, non gliel’ha commissionata proprio nessuno. Il nostro
affezionatissimo se l’è inventata, se l’è scritta e se l’è girata senza che
nemmeno gli passasse dall’anticamera del cervello l’idea di accondiscendere le
aspettative di qualche fan o di accattivarsi i favori di qualche critico. I
giudizi sono stati più o meno impietosi, anche se spesso provenivano da gente
che di Refn, a parte “Drive”, non
aveva visto un cazzo (oppure gli aveva fatto cagarissimo).
Era dai tempi di “Jackie Brown” che non si respirava tanta
delusione e tanto risentimento nei fans e nella critica; non c'è peggior sorte di quella dell'angelo che, perse le ali, precipita al suolo. Non c'è maggior soddisfazione che gettare fango sui propri idoli, perchè ci avvicina a loro, verso il basso. Grazie a dio sono ateo e, grazie a dio, Tarantino e Refn sono più forti, più bravi e più intelligenti delle menate che si leggono e si sentono in giro. Secondo me, molti non lo hanno nemmeno visto, il film; se no, non ci sarebbero tanti commenti sul fatto che costituirebbe la brutta copia di “Drive” (con il quale, come detto, non c'entra nulla).
Gosling presta il proprio volto
ed il proprio corpo a Julian, un gangster americano rifugiatosi in terra
tailandese per esigenze di marketing, ma anche per sfuggire alle maglie della
giustizia che gli da la caccia per un vecchio omicidio. Lo affianca un fratello
sadico e perverso il quale – dopo aver stuprato e brutalmente ucciso l’ennesima
ragazzina – viene a sua volta ammazzato per ordine di un misterioso ex
poliziotto/vendicatore che dispensa punizioni ed assoluzioni in base ad un
proprio personalissimo codice etico; il tutto con il placet delle autorità
locali. La mamma dei gangster, vera regina del male, non prende affatto bene l’omicidio
del primogenito. Ovviamente, sarà un bagno di sangue.
Refn mette in scena il suo personalissimo
j’accuse nei confronti della
Istituzione Famiglia, individuando nei legami parentali la fonte primaria delle peggiori malefatte e sofferenze umane.
Una immensa Kristin Scott Thomas interpreta
Crystal, la madre di Julian, e da corpo, anima e sangue ad una Lady
Macbeth/Giocasta/Lady Vendetta che trova rarissimi epigoni nella storia del cinema: vittima e carnefice, madre ed amante, dominatrice e dominata.
Come una malefica eroina shakespeariana Crystal semina vento, predica la via del sangue, educa i figli alla violenza per renderli forti e spietati come il mondo che conosce; ovviamente, la sua ambizione produrrà solo rovina e disperazione (il sangue insegnato torna sempre ad infettare colui che l'ha insegnato). Più ancora della madre di Edipo (la quale, almeno, era inconsapevole della propria condizione) la donna plagia e corrompe le pulsioni dei figli orchestrando persino la morte del marito. Come Lady Vendetta è l'esclusiva responsabile dell’escalation di violenza
dalla quale nessuno uscirà indenne.
Refn riscrive Shakespeare, aggiorna Visconti, supera Eschilo e persino Freud. Costruisce un bestiario umano di anime in pena; di esseri decadenti costantemente arrabbiati, addolorati e bloccati, la cui unica pace è costituita dalla morte.
C’è anche un pizzico del Marchese de Sade e di Leopold von Sacher-Masoch e, tanto per non fasi mancare nulla, echi di David Linch.
C’è tutto questo in “Only god forgives” e, forse, anche molto
di più. Chi ha visto il film con me, ha giustamente posto in luce il fatto che la location di Bangkok non può essere casuale. Nulla avviene per caso in un film del genere. Ed allora, non è affatto azzardata una lettura che tenga anche conto del confronto/scontro tra civiltà: l’occidente avido e spietato (Julian e suo fratello Billy) che arriva nel mistico e misterioso oriente per dare corso ai propri
eccessi (il sesso, la droga), per trovare una strada di redenzione (la boxe
tailandese), per sfruttare i propri interessi (il mercato della prostituzione e
del narcotraffico). Il mondo orientale si offre come un bengodi in cui tutto è permesso, lecito e possibile.
Ma il vecchio dragone non è affatto ammansito. Tantomeno sconfitto. L'Asia è tollerante ma ingannevole; disponbile, ma inflessibile; è uno specchio deformante che da un lato mostra quel che si vuole vedere, ma dall'altro cela un'anima paziente e fiera che gioca col superficiale occidente come il gatto fa col topo. Questo spirito è incarnato nel personaggio del vecchio poliziotto Chang – uno spettacolare Vithaya Pansringarm – il quale è il custode di un personalissimo e rigorosissimo codice etico, che dispensa a colpi di katana.
I due mondi, ovviamente, si affronteranno in uno scontro all’ultimo sangue in cui l’occidente ne uscirà completamente distrutto: non credo, tuttavia, che a Refn interessasse tanto prefigurare il passaggio di testimone tra i vecchi ed i nuovi signori del mondo (fin troppo facile allegoria di questa fase di transizione in cui l'assetto politico ed economico sta modificando orizzonti e protagonisti). Penso piuttosto gli premesse il portato simbolico costituito dal confronto dei due universi: quello avido, materialista, superbo e frettoloso dell'occidente contrapposto all'enigmatico, ambiguo, paziente e contraddittorio universo orientale. E' la condizione umana al centro dell'analisi del regista, il quale sembra volerci suggerire che non è una questione culturale: la vita è comunque dolore e sofferenza; non importa se nasci a Pechino, a New York o a Nairobi.
Refn non celebra affatto la supremazia dell'oriente, ma racconta l'impietoso crollo dell'occidente, che è avido, impaziente, smanioso di bruciare ogni ostacolo, compreso se stesso.
“Only god forgives” evoca nel titolo i vecchi spaghetti-western di nostrana memoria, ma il regista di Copenhagen, se ancora non si fosse capito, condivide con Tarantino solo il genio e non certo la poetica o il linguaggio: nel cinema del danese non c’è mai decontestualizzazione postmoderna, né divertito omaggio o deferente celebrazione.
Refn inventa così il "noodle western", uno strano genere cinematografico dove la strada del samurai incontra la solitudine dello sceriffo. Ne esce un mondo popolato di sbirri corrotti, vendicatori spietati, spacciatori, assassini e disperati di ogni risma. Non si tratta di parteggiare per gli indiani o i cow-boy. Si tratta di prendere atto del fatto che non può esserci pace nell'uomo; perchè la pace presuppone il perdono ed il perdono non è faccenda terrena, ma pratica divina.
Chang è sceriffo, giustiziere, killer ed eroe. Le sue regole di condotta non derivano da investiture divine o ultraterrene. E' il terzo principio della dinamica applicato alla morale degli uomini: la violenza genera altra violenza; la morte produce altra morte. Nessuna catarsi è ipotizzabile; nessuna assoluzione o possibilità di pentimento.
Ma il vecchio dragone non è affatto ammansito. Tantomeno sconfitto. L'Asia è tollerante ma ingannevole; disponbile, ma inflessibile; è uno specchio deformante che da un lato mostra quel che si vuole vedere, ma dall'altro cela un'anima paziente e fiera che gioca col superficiale occidente come il gatto fa col topo. Questo spirito è incarnato nel personaggio del vecchio poliziotto Chang – uno spettacolare Vithaya Pansringarm – il quale è il custode di un personalissimo e rigorosissimo codice etico, che dispensa a colpi di katana.
I due mondi, ovviamente, si affronteranno in uno scontro all’ultimo sangue in cui l’occidente ne uscirà completamente distrutto: non credo, tuttavia, che a Refn interessasse tanto prefigurare il passaggio di testimone tra i vecchi ed i nuovi signori del mondo (fin troppo facile allegoria di questa fase di transizione in cui l'assetto politico ed economico sta modificando orizzonti e protagonisti). Penso piuttosto gli premesse il portato simbolico costituito dal confronto dei due universi: quello avido, materialista, superbo e frettoloso dell'occidente contrapposto all'enigmatico, ambiguo, paziente e contraddittorio universo orientale. E' la condizione umana al centro dell'analisi del regista, il quale sembra volerci suggerire che non è una questione culturale: la vita è comunque dolore e sofferenza; non importa se nasci a Pechino, a New York o a Nairobi.
Refn non celebra affatto la supremazia dell'oriente, ma racconta l'impietoso crollo dell'occidente, che è avido, impaziente, smanioso di bruciare ogni ostacolo, compreso se stesso.
“Only god forgives” evoca nel titolo i vecchi spaghetti-western di nostrana memoria, ma il regista di Copenhagen, se ancora non si fosse capito, condivide con Tarantino solo il genio e non certo la poetica o il linguaggio: nel cinema del danese non c’è mai decontestualizzazione postmoderna, né divertito omaggio o deferente celebrazione.
Refn inventa così il "noodle western", uno strano genere cinematografico dove la strada del samurai incontra la solitudine dello sceriffo. Ne esce un mondo popolato di sbirri corrotti, vendicatori spietati, spacciatori, assassini e disperati di ogni risma. Non si tratta di parteggiare per gli indiani o i cow-boy. Si tratta di prendere atto del fatto che non può esserci pace nell'uomo; perchè la pace presuppone il perdono ed il perdono non è faccenda terrena, ma pratica divina.
Chang è sceriffo, giustiziere, killer ed eroe. Le sue regole di condotta non derivano da investiture divine o ultraterrene. E' il terzo principio della dinamica applicato alla morale degli uomini: la violenza genera altra violenza; la morte produce altra morte. Nessuna catarsi è ipotizzabile; nessuna assoluzione o possibilità di pentimento.
Ma, più di ogni altra cosa, è la
FAMIGLIA ad essere al centro di tutta l’analisi di Refn: non c'è legame parentale, nel film, che non generi afflizione e dolore.
Crystal (Kristin Scott Thomas) ha cresciuto un figlio perverso e sadico (Billy) ed ha bloccato lo sviluppo emotivo, sessuale ed emozionale dell’altro (Julian). L'obiettivo era fortificarne la tempra; il risultato è stato che il primo non può fare a meno di violentare e picchiare a sangue le ragazzine, mentre il secondo trova piacere solo nel farsi legare ad una sedia a contemplare l'autoerotismo di una puttana. Billie sa di essere il diavolo e, non sapendo rinunciare alla propria natura, sembra andarsi a cercare l’infausto destino. Paradossalmente, il suo personaggio è più risolto di quello del fratello Julian, che contempla i propri pugni serrati come simulacri della propria rabbia impotente. I legami di sangue sono i responsabili di tutto: la minorenne seviziata da Billy è stata infatti costretta a prostituirsi dal padre il quale, per tale ragione, verrà severamente punito da Chang. La famiglia di quest’ultimo, a sua volta, pagherà il prezzo delle scelte del vendicatore. E così via... madri, padri, fratelli, figli. I legami sono catene e l’amore famigliare – sembra volerci dire il regista danese – porta solo dolore e sofferenza.
Crystal (Kristin Scott Thomas) ha cresciuto un figlio perverso e sadico (Billy) ed ha bloccato lo sviluppo emotivo, sessuale ed emozionale dell’altro (Julian). L'obiettivo era fortificarne la tempra; il risultato è stato che il primo non può fare a meno di violentare e picchiare a sangue le ragazzine, mentre il secondo trova piacere solo nel farsi legare ad una sedia a contemplare l'autoerotismo di una puttana. Billie sa di essere il diavolo e, non sapendo rinunciare alla propria natura, sembra andarsi a cercare l’infausto destino. Paradossalmente, il suo personaggio è più risolto di quello del fratello Julian, che contempla i propri pugni serrati come simulacri della propria rabbia impotente. I legami di sangue sono i responsabili di tutto: la minorenne seviziata da Billy è stata infatti costretta a prostituirsi dal padre il quale, per tale ragione, verrà severamente punito da Chang. La famiglia di quest’ultimo, a sua volta, pagherà il prezzo delle scelte del vendicatore. E così via... madri, padri, fratelli, figli. I legami sono catene e l’amore famigliare – sembra volerci dire il regista danese – porta solo dolore e sofferenza.
La visione di Refn è atroce ed impietosa: ad un certo punto Julian ripulisce
una prostituta e la presenta alla amorevole
mammina come fosse la sua fidanzata: quello che ne vien fuori è roba che fa
sembrare “Festen” una cena in casa
Cunningam dentro un episodio di “Happy
days”.
Refn si interroga sulla
giustizia, sul perdono, sulla vendetta, sulla famiglia, sull’emancipazione e
sull’affrancazione dalle colpe dei padri (e, soprattutto, delle madri).
Emerge un fortissimo richiamo al
concetto di RESPONSABILITA': per quanto il mondo sia spietato, per quanto le
esperienze della vita ci abbiano segnato, dobbiamo ad un certo punto essere chiamati
a rispondere per quello che facciamo. Anche se è il frutto di ciò che abbiamo subìto. Non possiamo limitarci ad addebitare le
colpe al prossimo, alla società, alla famiglia, alla miseria, al sistema. Siamo vittime, ma anche carnefici. Scegliamo
e, quindi, siamo. E perciò, dobbiamo pagare il conto delle nostre scelte. Il
punto è accettarlo serenamente (come in fondo fa Billy) o subirlo nostro malgrado (come Crystal). Perché tutto ha delle
conseguenze. Ed il conto lo si paga su questa terra, con le lacrime e con il sangue.
Refn ci racconta tutto questo con
un film estremo, costruito su interminabili silenzi, su scelte cromatiche di
stampo quasi espressionista. I neon rossi e blu alimentano una danza cromatica
che agisce subliminalmente ed inconsciamente sullo spettatore ancor prima che
sugli interpreti.
Il movimento è ridotto alla pura
astrazione; al punto che il film, più che un racconto in movimento,
sembra quasi una mostra di immagini statiche: un insieme di istantanee che raccontano
il punto di vista del regista sul mondo.
Lasciate perdere chi vi parla di
autoreferenzialità (Refn, in fondo, non ha mai girato in questo modo) o di
vuoto autocompiacimento estetico ed estetizzante: si può parlare di “stile
Tarantino” o di “stile Malick”, ma non esiste affatto uno “stile Refn”;
Il problema delle aspettative,
come detto, sono le aspettative.
Refn costruisce ogni suo film in
modo diverso da un punto di vista visivo, narrativo ed
emotivo: gli spazi claustrofobici ed espressionisti di “Bronson”; le immensità metafisiche di “Valhalla Rising”; il realismo violentissimo e crudissimo dei “Pusher”; il romanticismo kitsch di “Drive”.
Qui si gioca sulla
contrapposizione di minimalismo e barocco, di rosso e di blu, di essere e di apparire.
È un trionfo di corpi, di carne,
di atleti sudati che lottano sul ring, di statue classicheggianti che celebrano
muscolosi busti maschili, di prostitute tailandesi portatrici di languida
lascivia… tutto però è congelato e raffreddato da una messa in scena glaciale che
sottrae energia alla lotta, toglie spettacolarità alla violenza, reprime
sessualità alla carne, mortifica l'attrazione e la bellezza…
Refn sembra scegliere il punto di
vista allucinato, distante ed impotente di Julian che filtra il mondo
attraverso la lente deformata del suo sguardo. Il rosso del senso di colpa avvolge il
personaggio di Gosling come in un incubo lynchiano, mentre la sua percezione di sé (quando
si guarda allo specchio) assume i toni malati e patogeni del cobalto.
La scelta stessa di sottrarre la
parola, congelare l’azione, paralizzare il movimento è una fortissima presa di posizione del regista
che, lungi dall’inseguire chimere estetiche, prova a descrivere il mondo ed i suoi abitanti
come statue di cera, marionette prive di volontà, corpi senza più anima.
La salvezza, forse, è tutta nella poesia che aleggia tra le note di una canzone thai suonata dentro un karaoke di periferia. Dopo tutta la violenza, dopo tutti i dolori provati e dispensati, una canzone d’amore ci ricorda che, nonostante tutto, possiamo ancora sentirci umani.
Solo dio perdona, perchè nel mondo degli
uomini questo sentimento è troppo immenso, troppo complesso, troppo difficile.
Perdonare vuol dire comprendere e accettare e superare. E sì, è possibile
amare qualcuno senza riuscire a perdonarlo! Dentro le viscere ancora calde di Crystal, Julian soddisfa l'ambizione edipica del proprio essere: plagiato, impotente e del tutto incapace di emanciparsi dal ruolo disegnato col sangue dalla perfida madre. Le ambizioni dei genitori pesano come macigni sui cuori dei figli, i quali non possono smettere di amarli e non potranno mai perdonarli.
Finalmente liberatosi dal giogo materno, Julian può cominciare a vivere la propria vita. Ma per farlo, dovrà accettare di pagare le conseguenze delle proprie azioni. Assieme ai suoi pugni, si spera, sparirà anche tutto il dolore...
GIUDIZIO SINTETICO: “Only god
forgives” è la prova che Refn è l’unico regista al mondo capace di girare
due film completamente diversi usando praticamente gli stessi ingredienti; e tirando
fuori, in entrambi i casi, due capolavori della madonna. Questo, purtroppo, non è piaciuto
praticamente a nessuno, ma credemi: è veramente tantissima roba.
Sicuramente tra i film dell'anno.
Sicuramente tra i film dell'anno.
VOTO: 7,5
QUALUNQUE COSA NE PENSIATE, NON LIMITATEVI A PENSARLA... SCRIVETELA QUI SOTTO E CONDIVIDETELA!!!
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