“La la land” è tanta roba!
È una roba capace di incantarti per due
ore filate facendoti stare con la bocca spalancata come un bimbo di Povia,
farti venire gli occhi a cuore e scendere i lacrimoni giù per le guance come
torrenti a primavera, per poi tirarti un calcio dritto nelle palle – fortissimo – e sussurrarti
flebile nell’orecchio una rivelazione che puzza tanto di minaccia: attento amico, perché la vita non è un
fottuto musical; ma manco per il cazzo!
È passata una settimana dalla mia
prima visione del film di Chazelle,
già in concorso al Festival di Venezia, mattatore ai Golden Globe (7 premi) e
candidato a un numero record di statuine agli Oscar (14 nomination), ed io, da
‘sta roba qui, devo ancora riprendermi.
Come al solito, SPOILER ALERT assolutamente
attivo!
“La la land” è un film quasi perfetto. Ha una regia della madonna,
capace di citare ed inventare, di rimpiangere e rivoluzionare, di omaggiare e
distruggere, in un continuo gioco di riferimenti al cinema della tradizione e
di negazione dei loro presupposti ideologici, emotivi ed esistenziali; è un
ossimoro; un qualcosa che definisce se stesso attraverso la sua costante negazione. Come
spiegare, altrimenti, un film che mentre celebra e cita a memoria Gene Kelly ci
racconta il fallimento di un amore con un cinismo degno di Fassbinder?
Il regista di “Whiplash” prende il più morto dei generi
cinematografici e lo resuscita adattandolo ad un contesto moderno e contemporaneo,
trasformandolo nel suo esatto opposto. Chazelle
ricorrendo a tutti i cliché della più melensa e sentimentale delle cornici di
genere (il musical classico hollywoodiano) racconta una storia impietosamente cinica
e ottimisticamente spietata. Non solo! Sceglie di far interpretare un musical a
due attori non cantanti e non ballerini (ancora contraddizioni); ne cita tutte
le fonti e ne recita a memoria tutte le regole, per poi sbarazzarsene,
azzannando alla giugulare con un finale clamoroso e struggente, che ribalta
ogni aspettativa e che diventa la perfetta metafora dell’inganno propinatoci dall’industria dei sogni: quello secondo cui l'amore è la cosa più importante. Un concetto che ci ha talmente assuefatti da farci dimenticare che
la Vita sullo schermo raramente coincide con quella della nostra quotidianità. La quale racconta troppo spesso un'altra verità.
Il Cinema –
soprattutto la commedia musicale tradizionale a stelle e strisce – non era solo lo strumento
per evadere dal “logorio della vita moderna” (persino meglio del Cynar), ma
anche il luogo dove l’amore trionfava alla stragrande e dove l’impossibile era
sinonimo di reale!. Ma Chazelle se
ne sbatte altamente delle regole e delle aspettative; anzi, dimostrando di
conoscere alla perfezione le prime, si diverte un mondo a giocare con le seconde, estraendo dal cilindro un musical dove l’amore perde su tutta la linea, dove i
sogni non aiutano affatto a vivere meglio e dove la realizzazione personale, per
potersi compiere, non si fa nessuno scrupolo a passare sul cadavere dei
sentimenti.
Non può essere un caso, in fondo,
se l’indovinatissimo titolo, oltre a giocare sulle melodiose assonanze fonetiche
dell’acronimo della città degli angeli (L.A.) – quasi a evocare una sorta di giocoso
motivetto – costituisce la citazione quasi letterale dell’espressione idiomatica
inglese “la-la land”, che viene usualmete impiegata per descrivere una
sorta di “stato euforico di distacco
dalla dura realtà”. E la dura realtà è che la realizzazione personale può
(anche se non necessariamente deve) passare attraverso la rinuncia alle
distrazioni dei sentimenti (l’amore). Non c’è nessun giudizio, o condanna etica,
per questa scelta. Anzi. Chazelle ha
tutto il sacrosanto diritto di ritenere che il conseguimento di un obiettivo
personale (la recitazione, la musica, la carriera) sia una vittoria da
celebrare anche se è costata il sacrificio dell’Amore della Vita. “La La Land”, infatti, è una commedia a tutti gli effetti, con tanto
di happy ending; ma il suo finale, per chi come il sottoscritto parteggia per
gli stati euforici e si ostina a credere che l’amore sia ancora, nonostante
tutto, la più preziosa esperienza che ci sia data da vivere, fa molto più male
della più spietata delle tragedie, perché non è affatto il finale per cui avremmo fatto il tifo.
Non io, almeno!
Il film di Chazelle costituisce una strana forma di postmodernismo. Come nelle pellicole
di Tarantino, gli inside jokes, i riferimenti colti e le citazioni cinefile si
susseguono e si alternano talmente numerose da far sembrare l’opera come il
mero prodotto dell'assemblaggio di decine di scene già viste e già appartenenti al nostro
bagaglio visivo ed emotivo, la cui somma, tuttavia, finisce per assumere un
significato completamente diverso e del tutto imprevedibile rispetto alle sue singole parti. Così, se gli ammiccamenti al cinema di Castellari,
di Fulci, di Bava e di Deodato non
erano, per il genio di Knoxville, solo un semplice divertissement citazionista, bensì l’occasione per raccontare il
contemporaneo all’interno di una cornice di genere che lo riqualificava e lo decontestualizzava,
ponendolo criticamente sotto una nuova luce, allo stesso modo, il citazionismo di
Chazelle non è mai puro manierismo,
né omaggio fine a se stesso o semplice plagio. I plateali riferimenti a “Singing in the rain”, a “Grease”, a “Un americano a Parigi” e a “Shall
we dance” (giusto per citare alcuni tra i più palesi), servono al regista
per evocare un familiare contesto emotivo e mantenere viva l’aspettativa romantica
dello spettatore. Ma è un inganno – uno dei tanti – i cui indizi, che sono disseminati
un po’ ovunque (il telefonino che irrompe a spezzare la magia della canzone e il vecchio cinema d'essai che chiude i battenti), si è portati ad ignorare e sottovalutare sull'onda del flusso emotivo suscitato dalla pellicola; così, lo spettatore è troppo intontito e rapito dalla dimensione ovattata e seducente della commedia sentimentale
a cui sta assistendo per accorgersi di essere prossimo a schiantarsi contro il
durissimo muro della Realtà.
Che è un po' quello che a volte fa l'amore a tutti quelli che se ne fanno ammaliare.
Forse è vero che l’amore non
esiste ed esiste solo la sua idea romantica, che ci impedisce di vedere la sua
effettiva natura menzoniera e distruttrice; un’idea condizionata e forse addirittura
instillata dalle ingannevoli illusioni che registi, scrittori e poeti ci hanno propinato nel corso dei secoli. E i più ingenui di noi ci continuano
a cascare, facendosi spesso fottere la vita. Io, ovviamente, mi iscrivo alla lista e
probabilmente, a suo tempo, vi era iscritto pure Chazelle; la differenza è che lui deve essersi rotto le palle di beccarsi delle bastonate sui denti e ha deciso di smascherare il più decantato dei sentimenti, denunciandolo al mondo per quello che effettivamente potrebbe anche sembrare: ossia il più subdolo ostacolo alla realizzazione di se stessi; il più grande nemico delle nostre vere ambizioni; il più infido impedimento sulla strada delle nostre infinite
possibilità. Sarà… Che vi devo dire...? Io, dovendo scegliere tra Mia e il Seb’s, non avrei avuto un
solo dubbio al mondo; ma io appartengo alla schiera degli ingenui e non mi sono ancora stufato di pagarne il prezzo, anche quando fa tanto male. E, comuqnue, quello che
penso io non conta proprio un cazzo. Conta, in questo caso, il pensiero di Chazelle, il quale, prescindendo da
quello che è il nostro personale punto di vista sulla questione (che ai fini del giudizio sul film è totalmente irrilevante), lo ha espresso nel migliore e più efficace dei modi possibili, raccontandoci
l’inganno dell’amore attraverso un film, a sua volta, talmente ingannevole da averci
persino fatto credere che il trionfo personale di entrambi i protagonisti potesse essere interpretato come una conclusione tragica (e il fatto che
alcuni di noi fatichino ad ammettere che si tratti di un happy ending, deriva unicamente dalla
cornice sentimentale in cui la storia è iscritta, che ci fa parteggiare per
le ragioni del cuore a prescindere da dove esse conducano; ma questo, ovviamente, è un problema NOSTRO, non certo di Chazelle, il quale più che mostrarci che il banco è truccato e come il trucco funzioni, sinceramente, non potrebbe proprio fare di più per supportare le sue teorie).
“La la Land” è la storia di due solitudini che si incrociano e che
poi si perdono. Ma è anche la storia di due successi, per quanto a molti di noi la cosa non voglia proprio andare giù. Sebastian e Mia hanno ciascuno il proprio sogno: lui (Ryan Gosling) vorrebbe aprire un locale jazz, dove i musicisti possano suonare il
cazzo che vogliono, per tutto il tempo che vogliono. Senza carezze al pubblico,
buffetti rassicuranti e pezzi commercialmente orecchiabili. Basta che sia jazz e venga dal cuore. Invece sbarca il lunario come un moderno mariachi a suonare motivetti insulsi,
per un pubblico insulso, dentro locali ancora più insulsi. Ogni sua nota è un
affronto e un oltraggio a quanto ha di più sacro al mondo. E sogna di riuscire,
un giorno, ad avere un posto dove tenere il mondo fuori e proteggere, al suo
interno, la musica che adora.
Mia (Emma Stone) passa da
un’audizione ad un’altra, senza mai riuscire a fare un solo passo in avanti
verso quella carriera di attrice per la quale ha deciso di abbandonare il
paesello e di approdare nella città degli Angeli. Per il momento si arrangia
come barista e le uniche attrici che incrocia sono quelle a cui serve il
cappuccino la mattina. Nessuno dei due sta cercando l’amore, nè lo vuole. Lui ama solo il jazz e lei la recitazione. Ma il destino, come
nella migliore tradizione, li mette l’uno sulla strada dell’altro. Che sia in
fila nel traffico, ad una festa di matrimonio o dentro un locale, loro devono
incontrarsi. Devono parlarsi. Devono amarsi.
E il bello è che, insieme,
saranno effettivamente l’uno la migliore spinta per l’altro. In fondo, è Mia ad insistere affinché Sebastian
non abbandoni l’idea del locale. Così come è Sebastian a convincere Mia a
scrivere e mettere in scena il monologo che le darà l'occasione di sfondare. Ma per Chazelle non basta a farlo durare. Perchè rilevare il jazz club costa un mucchio di soldi, e occorrono anni di tourné in giro per il mondo per raccimolarli. D'altra parte, la strada per diventare attrice passa per Pargi, dove Mia è stata scritturata per un'opera importante. Dunque, che si fa? Sebastian e Mia si giurano amore eterno, ma i loro sogni sono altri e più importanti. Potevano mantenere entrambi? Potevano continuare ad amarsi e rimanere fedeli ai propri sogni? Forse, ma per Chazelle, quella roba lì, succede solo al Cinema.
E infatti, lo struggente finale
ci mostra come sarebbe stata la loro vita se fosse stata un musical degli anni '50. Tutto l'amore che non hanno avuto è raccontato e racchiuso nelle note di una canzone che strazia il cuore e ferisce come una lama. Perchè avrebbe potuto essere vero...
Ma Chazelle, come detto, non ci crede affatto e non sarò certo io a dire che si sbaglia.
Del resto, già in “Whiplash” ci aveva mostrato un durissimo
e determinatissimo Miles Teller farsi ben pochi scrupoli nel dare il benservito alla fanciulla di cui si era invaghito, solo perchè poteva distrarlo dal diventare il miglior batterista del mondo. Mi ricordo che quella scena mi fece un casino di male. Fu
geniale e dolorosissima. Una doccia fredda in faccia al romanticismo da Bacio
Perugina che inflaziona le favolette di Hollywood. E in cui mi ostino a voler credere.
Non lo so. Ovviamente ognuno avrà
la sua opinione sul tema, a seconda di quelli che sono i propri valori, le proprie
idee e le proprie esperienze. Il merito di Chazelle,
a mio avviso, è stato quello di non essere moralista, né didascalico. Non
giudica e non condanna i propri protagonisti per aver sacrificato l’amore
sull’altare del successo personale e costruisce un film perfettamente coerente
con la sua visione esistenziale della vita.
Mi piace però pensare che dietro quello sguardo finale di Mia, in fondo, ci sia una nota di rimpianto per non aver capito in tempo che amare qualcuno non significa necessariamente dover rinunciare a se stessi. E che quella canzone, ancora fresca nella memoria di Sebastian dopo tutti quegli anni, sia molto di più che una semplice performance per il pubblico pagante, ma rappresenti l'intima confessione a se stesso che l'essere riuscito a salvare il jazz e comprare il locale dei propri sogni è poca cosa senza qualcuno con cui condividerlo e in grado di capirne il senso. Forse l'amore impedisce davvero la realizzazione dei propri sogni personali. Ma forse quei sogni sono nati proprio quando e perchè eravamo soli. Mi piace credere che i desideri, come ogni cosa nella vita, possano cambiare anche in funzione di quello che viviamo e che l'amore, se può ostacolare i vecchi obiettivi, ne possa far sorgere di nuovi, magari anche migliori; solo che prima, da soli, non potevamo conoscerli, nè immaginarli. Che non significa tradire o rinnegare quello che eravamo, ma semplicemente realizzare quello che siamo diventati.
Caro Damien,
comprendo alla perfezione il tuo punto di vista e lo rispetto; hai creato un film meraviglioso e meriti tutto il successo che ti è stato attribuito. Tuttavia, spero vivamente, nonostante quello che professi, che al tuo fianco ci sia una persona meravigliosa con cui condividerlo, in grado di capirne l'importanza e capace di darti obiettivi e sogni che, da solo, nemmeno immaginavi esistessero. Mia e Sebastian hanno fatto la loro scelta. Non
erano obbligati a lasciarsi e non doveva per forza finire così, anche se so che spesso è quello che accade. A loro modo hanno vinto, ma è il genere di vittoria che non mi auguro di conoscere. Quel dolore che ho provato sul finale, più che un ammonimento a diffidare dell'amore, mi fa pensare che se loro hanno scelto di non tradire se stessi, in fondo hanno comunque tradito il loro rapporto e le loro promesse. Forse hanno fatto bene, ma, sinceramente, non so se ci abbiano davvero guadagnato.
Quanto a voi, se proprio dovete tradire l’Amore per non tradire voi stessi, fatelo almeno per qualcosa che ne valga davvero la pena. Per quel che mi riguarda, invece, continuerò a stare dalla parte dei pazzi che sognano, di quelli che sbagliano e dei cuori che sanguinano... per quanto sciocchi possano apparire!
Here's to the ones who dream
Foolish as they may seem
Here's to the hearts that ache
Here's to the mess we make
Foolish as they may seem
Here's to the hearts that ache
Here's to the mess we make
GIUDIZO SINTETICO: Un film clamoroso e con il lieto fine più triste della storia del cinema.
VOTO: 8 e 1/2
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