Paura dello spazio profondo… ad un'analisi superficiale, questa potrebbe apparire come una discreta sinossi della pellicola, ma la verità è che non è tutto qui; c’è molto di
più potente e cruciale in ballo, dentro questo “Gravity”,
che non il “semplice” panico da vuoto cosmico che caratterizza l’universo al di
fuori della nostra atmosfera.
Bisogna dargliene atto: Cuaron
mette in scena un film veramente tosto e cazzutissimo.
Tecnicamente, ogni dettaglio
risulta semplicemente superbo ed ammaliante.
Costantemente regna la sensazione
che anche il più microscopico e marginale particolare sia stato, comunque,
accuratamente studiato e perfettamente realizzato: viti che fluttuano; lacrime
che galleggiano; esplosioni mute (già, perché nello spazio non c’è nulla che
trasporti il suono); corpi sbalzanti e rimbalzanti; detriti cosmici che
viaggiano come proiettili in totale assenza di inerzia… l’odissea, questa
volta, non è una direzione astrale verso i confini estremi dell’universo; nessuno
insegue la sfida, che fu di Ulisse, di oltrepassare i limiti del conosciuto. Lo
spazio non è una rotta, ma un mero – pur bellissimo – contenitore.
Cuaron descrive l’Uomo: le sue Paure, i suoi Moventi e le sue Reazioni.
Solo che, per mettere in scena
l’introspezione più intima dell’animo umano, ricorre all’espediente opposto:
l’immensità infinita dell’universo.
Non è un viaggio di conoscenza verso
l’esterno, ma assolutamente verso l’interno.
Il pretesto narrativo è costituito
da una semplice missione volta ad aggiustare, o attivare o testare
(sinceramente non mi ricordo, ma ha veramente nessunissima importanza) un
qualche marchingegno dentro una specie di nave-satellite… un equipaggio di
esperti astronauti fa da scorta ed accompagna la missione della dottoressa Ryan
Stone (la veramente sorprendente Sandra Bullock), che sta portando a termine il progetto sul quale ha speso
anni della propria vita e dentro il quale si è rifugiata per il dolore della perdita più grande e devastante,
quella della figlioletta di quattro anni rimasta uccisa in un banale incidente
domestico.
Ovviamente, come in ogni
blockbuster americano che si rispetti, al minuto dodici succede il patatrac:
l’esplosione di un satellite – puntuale come un orologio svizzero – produce una
pioggia di detriti che investe l’equipaggio falcidiando completamente
strumenti, mezzi e persone e rendendo impossibile (o, quantomeno, assai improbabile)
il rientro sulla terra.
All’impatto, sopravvivono solo due
persone. La dottoressa Stone e Matt Kowalski, l‘astronauta a capo della
missione (un George Clooney, al suo peggio in carriera)…
Qui il film si divide sostanzialmente
in due parti. Nella prima regna lo spaesamento e la paura dell’ignoto. Dopo l'impatto coi detriti, la
straordinaria e struggente bellezza del cosmo infinito muta improvvisamente in
puro terrore. Da questo punto di vista, il regista ha operato da dio, dilatando
con lunghissimi piani sequenza il senso del tempo e dello spazio e la loro
mortale inesorabilità.
Non è tanto una questione di agorafobia, quanto la prospettiva
di vagare senza meta per l’eternità ad essere terrorizzante. Di più. È la
sensazione della propria impotenza rispetto agli elementi, ai desideri ed alla volontà; è la mancanza di
appigli, di punti cardinali, di gravità - appunto - ossia di qualcosa che in qualche modo possa
dare una direzione verso cui tendere o alla quale opporsi.
Lo spazio è una prigione senza
sbarre, senza porte, senza guardie e in cui non valgono le normali leggi che
governano le nostre vite: il tempo smette di essere tale; finisce la sua
funzione convenzionale e torna ad essere un eterno ed agghiacciante presente;
le “nostre” leggi fisiche non funzionano lassù: o meglio, funzionano perfettamente, ma con
effetti completamente differenti: l’assenza di gravità; la mancanza di
alternanza tra giorno e notte; il silenzio assoluto ed assordante… Nello spazio,
tutto è diverso. Nello spazio, non c'è vita. L’immensità è una visione meravigliosa che atterrisce e
paralizza. Viene da lasciarcisi abbandonare; viene da cedervi e smettere di
opporre resistenza.
Matt Kowalski, che pure avrebbe
ragioni per non farlo, accetta la deriva e si abbandona al vuoto.
E la dottoressa Stone? nessuno a
casa che l’aspetta; sua figlia è morta; il suo lavoro ed il suo progetto sono
andati distrutti con la pioggia di detriti. In fondo in fondo, chi glielo fa
fare? Perché lottare? Perché, semplicemente, non lasciarsi andare…?
Ed è qua che il film diventa
straordinario. Perché nella seconda parte, passata la comprensibile paura iniziale,
la Stone decide che non vuole saperne un cazzo di cedere alle lusinghe
dell’immenso spazio senza confini; con una determinazione rara ed encomiabile ritrova
il suo baricentro; reagisce alla propria vita; rinasce e si dota di nuovi moventi…
in altre parole, ritrova la propria gravità!
E la propria gravità le impone, le
ordina, le intima un solo comandamento: sopravvivere, sopravvivere,
sopravvivere; ad ogni costo, con tutte le forze, contro ogni pronostico ed
avversità. SOPRAVVIVERE!
Perché la vita, in fondo, è
questo: opporsi oppure cedere al vuoto. Trovare la propria direzione e le
proprie motivazioni, oppure smettere di lottare e perdersi, lasciandosi galleggiare e trasportare alla deriva.
Ci saranno sempre
sfighe, avversità, calamità devastanti e terrificanti. Ciò che ci definisce è
come sappiamo reagire. La sfida della Bullock è una sfida senza speranza e,
forse, senza senso. Le probabilità a proprio favore stanno praticamente a zero. Non ha
alcuna esperienza. È sola. I mezzi che forse le
permetteranno di provare a fare qualcosa che quasi sicuramente la farà
ammazzare sono quasi irraggiungibili e quasi sicuramente inutilizzabili. Eppure,
non si da per vinta. Eppure, si attacca a tutta la propria rabbia, a tutta la
propria fotta e a tutta la propria determinazione perché il suo istinto le impone una
sola condizione: sopravvivi, sopravvivi, sopravvivi! E cosa si è disposti a fare per sopravvivere? Fino a
che punto ci si può spingere in un’impresa titanica ed apparentemente impossibile? Cuaron ci dice che si può arrivare persino a
credere di poter riuscire a tornare a casa dallo spazio senza mezzi adatti,
senza preparazione tecnica, senza una possibilità al mondo. Perché la
sopravvivenza dura tutto il tempo della lotta. Non è il raggiungimento
dell’obiettivo, ma l’opposizione alla passività. Sopravvivere (e, quindi, vivere) è avere uno scopo e perseguirlo.
Ecco, mi piace pensare che Cuaron
non abbia motivato l’abnegazione della propria eroina semplicemente per la
paura della morte (che, come detto, le sarebbe pure stata gradita al punto di
cercarsela anticipatamente…), quanto per il fervido rifiuto della propria passività.
Perché col cazzo che mi do per
vinto! Perché non mi avrete senza lottare!
Voglio leggere il film come la
storia della gravità che si oppone alla sua assenza. Di più! La bramosia per
una forza attrattiva che ci salvi dalla vocazione al vuoto. Il peso di una scelta che sappia
replicare alla leggerezza dell’inerzia. Il coraggio che si oppone
all’indolenza, più che alla paura. Ribadisco: non è una questione di reazione
al panico. È una vera e propria presa di coscienza. Non è la vita che si oppone
alla morte, ma il senso della vita che si oppone alla sua mancanza.
Scegliere di vivere implica l'essere disposti ad accettarne e sopportarne il peso.
La Bullock mette in atto
un’impresa disperata ed impossibile mossa dalla convinzione che questo possa
essere il vero senso della propria vita: non tanto perché è convinta di riuscire a tornare sulla terra,
quanto per non voler morire prima di averci provato.
Non agire in base alle
probabilità, dunque, ma in base all'urgenza di non poter far altro.
(spoiler: in questo senso, la
nuotata finale assume caratteri fortemente simbolici e straordinariamente
efficaci).
Peccato solo che Cuaron non abbia
avuto le palle, o l’ambizione, di guardare esclusivamente a Tarkovsky invece che
strizzare l'occhio a Spielberg.
Perché il film, purtroppo, ha
delle cadute (oggettive seppur perdonabilissime) che non gli permettono di raggiungere
l’Olimpo dei capolavori assoluti. Alcuni momenti risultano, francamente, troppo mielosi ed eccessivamente
retorici (la storia della figlioletta morta, ad esempio, viene un po’ abusata); ma è
soprattutto il personaggio di Clooney che stona e che non c’entra un cazzo di
niente con tutto il resto. Capisco le esigenze produttive; capisco che mettere Clooney in
cartellone garantisca incassi e potenzi l’attrativa dello spettatore medio. Ma
santo dio. Se proprio lo devi infilare, almeno usalo bene. Il suo personaggio è
semplicemente inutile. Peggio, è dannoso e fastidioso. Ribadisco, il film resta
portentoso ed eccezionale (va visto al cinema, assolutamente), ma queste
piccole-grandi cadute ne guastano (peraltro gratuitamente) la portata epica.
GIUDIZIO SINTETICO: Visivamente straordinario. Clooney da
fucilazione. Intenso e potente. A tratti terrorizzante. Piccoli difetti che gli
si vuole perdonare. Comunque, avercene.
VOTO: 7+
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