17/06/16

THE NEON DEMON (di Nicolas Winding Refn)






« La bellezza, invece, è l’unica cosa che conta»

Se mai ci fossero stati ancora dei dubbi, “The Neon Demon” ha sgomberato decisamente il campo: NWR (come si griffa provocatoriamente nel titolo il nostro affezionatissimo, in perfetto stile Yves Saint Laurent) non è quello di “Drive”. Non è neppure più quello dei “Pusher”, se è per questo, ma è un Artista (ancor più che Autore) a tutto tondo, con una sua ben precisa e radicale idea di Cinema, che porta avanti alla faccia di tutto e di tutti. Almeno finché troverà qualche pazzo disposto a produrre film che, al botteghino, continueranno a fare i disastri.

E dire che Refn è un tizio che, volendo, potrebbe fare vagonate di paperdollari, confezionando pellicole fatte su misura per i gusti del pubblico e con un’estetica da far invidia a chiunque. Con quelle immagini, quelle musiche e quella capacità di casting (ditemi quando ha sbagliato la scelta anche solo di una comparsa) gli basterebbe farsi scrivere due crime minimalisti, due melò esistenzialisti e due pulp postmoderni, per fare tombola e vivere da sultano…

Invece Refn se ne sbatte dei gusti del pubblico, delle opinioni dei critici e pure del buonsenso più spiccio. Lui, a suo modo, fa Arte, con tutti i rischi e i pregi che ciò comporta.

Difficile inquadrare gli ultimi lavori del geniaccio danese (escluso “Drive”, che però era “solo” una splendida marchetta di lusso) da un punto di vista squisitamente cinematografico-narrativo. “Valhalla Rising” era un incubo norreno quasi del tutto privo di trama, in cui vichinghi e crociati, muti come pesci, se le davano come fabbri immersi in lande magnifiche e desolate. Praticamente, un Herzog de menare. Il sublime “Only god forgives” era invece un delirio cromatico virato in rosso e blu che deflagrava la Famiglia, citava Eschilo, ridicolizzava Freud, annichilendo quanti ancora pensavano che il Cinema fosse necessariamente un insieme di immagini in movimento. Era il barocco minimalista, o lo Zen roccocò: ossimori devastanti anche solo da concepire, figuratevi da fruire… chi cerca costruzione dei personaggi, sviluppo narrativo lineare e storie d'evasione è pregato di rivolgersi altrove!

Anche il potentissimo e violentissimo “Bronson” non era affatto un film di trama, ma di emozioni, ossessioni e deliri, tutti resi in chiave brutalmente visiva e quasi mai narrativa. E dire che, teoricamente, sarebbe stato un biopic…


Per cui non stupitevi che se da uno come Refn, che dichiara di voler fare un horror al femminile con protagonista una minorenne, non verrà fuori un normale b-movie di motoseghe e tette di fuori (che pure ci sono), ma un viaggio acido e ipnotico dentro le proiezioni, le paure e i desideri della società contemporanea. Con cromatismi dispensati a secchiate...
 
Jesse (Elle Fanning) è una sbarba appena arrivata a Los Angeles dal profondo nowhere della provincia americana. È virginalmente sensuale e innocentemente intrigante; è vittima sacrificale e pantera mortifera. Refn, da bravo nordico, conosce il concetto di senso di colpa e si diverte un mondo a farci sbavare per la sua sexy lolita, facendoci sentire come vecchi sporcaccioni arrapati in gita dentro un collegio femminile. Jesse è provocante e respingente. I nostri occhi non le si staccano di dosso, mentre la nostra coscienza ci suggerisce che sarebbe molto più prudente guardare altrove.
Il mondo della grande moda, ovviamente, le si spalanca davanti, ma la bellezza è un’arma a doppio taglio.

Beauty don’t come cheap!


Per la bellezza, infatti, si uccide e si viene uccisi; si invidia e si viene invidiati; la beltà apre e sigilla infinite possibilità; è strumento di offesa e arma da cui difendersi; la bellezza è una droga che assuefà, che provoca astinenza, desiderio e bramosia. La bellezza regala successo, ammirazione, devozione, ma costa sacrifici: interventi chirurgici, dolore, privazioni. La bellezza discrimina ed è discriminata. In ogni caso, prima o poi, svanisce. Sia per l’ineluttabile trascorrere del tempo, sia per l’arrivo di una sua nuova incarnazione, ancora più giovane e meravigliosa, che è sempre incombente. Ma Refn è troppo intelligente per cadere nel tranello del buonismo e nella parabola della vacuità della bellezza priva di contenuto.

L’importante è essere belli dentro... è una cagata pazzesca!

Ci piacerebbe che fosse così, ma non lo è! Per nessuno! Staresti con Jesse se non fosse così bella? è una battuta che sembra buttata lì per gioco, per pura provocazione... ma è una battuta che spezza le gambe e ferisce come una katana in un film di cappa e spada. Perché nessuno di noi, fino a quel momento, si era posto minimamente il problema. Ecco perché la domanda arriva come un pugno nei reni. Perché sottintende una risposta talmente scontata, che tramortisce. Perché, ovviamente, la risposta è NO! nessuno ci starebbe! perché Jesse è vuota, è inutile e priva di qualsivoglia talento, pregio, valore o passione. Jesse non è simpatica, non è particolarmente intelligente, non è colta. Jesse è “solo” bellissima. Ma proprio questo, per oltre un'ora di proiezione, ci ha impedito di interessarci alla questione su cosa ci fosse, in effetti, dentro quel magnifico contenitore. Volerle stare accanto era tanto scontato e naturale, che nemmeno ci siamo chiesti il perché...

Lei stessa si presenta dicendo di non saper cantare, di non saper ballare, di non saper recitare. Ma non importa, perché la gente è comunque portata a credere istintivamente in lei, a credere nelle sue potenzialità... a voler spasmodicamente far parte del suo mondo. Solo perché è bellissima. Il mondo intero è pronto ad accoglierla, aiutarla, depredarla, sfruttarla e divorarla “solo” per la sua immensa e diafana bellezza. Anche noi lo siamo stati, finché quella domanda non ci ha risvegliati dall'ipnosi. 

Sai, non sappiamo cucinare...
Può farci cagare che il mondo giri in questo modo. Ma gira così e Refn ce lo sbatte in faccia senza filtri e falsi moralismi. Se hai la bellezza, puoi quasi tutto! Non datemi del maschilista sciovinista. Vi prego. In primo luogo, il concetto vale per tutti, uomini e donne. In secondo luogo, un conto è pensare a quanto sarebbe bello giudicare ed essere giudicati esclusivamente per la qualità del nostro essere. Un altro è sapere con certezza che quel(la) ragazzo(a) non ci cagherà mai di striscio, solo perché non siamo abbastanza belli. Non importa che abbiate compreso tutta "La critica della ragion pura", abbiate divorato Dostoevskij e siate la persona più romantica del mondo. Se non siete belli, la maggior parte delle porte vi verranno comunque sempre sbattute in faccia. E non siate ipocriti… la ragazza (il ragazzo) dei vostri sogni lo sarebbe anche se fosse brutta(o)? Ovviamente, non generalizzo. Ci sono millemila eccezioni, sfumature e, grazie a dio, migliaia di gusti e diverse concezioni di bellezza che salvano ognuno di noi dalla solitudine. Ma che la Bellezza sia un motore potentissimo e un primario collettore di desideri e aspirazioni bisognerebbe essere ciechi per non vederlo.

È giusto? Sicuramente no. È uno dei tanti aspetti che rendono questo mondo un posto di merda? Probabilmente si. Detto ciò, possiamo continuare a fare gli snob indignati e fingere che non sia vero; però, dentro di noi, sappiamo perfettamente che è così. Refn ci dice che la bellezza è l'unica cosa che conta. Forse esagera un po', ma neanche troppo. Ci siamo cascati tutti, in effetti. Siamo stati esclusi, ignorati e trascurati, perché non eravamo abbastanza fighi. Abbiamo escluso, ignorato e trascurato, a nostra volta, chi non lo ritenevamo abbastanza per noi. Non conosco nessuno che non vorrebbe essere più bello di quello che è. E, sicuramente, sono molti di meno quelli che si sforzano di essere più intelligenti di quelli che vorrebbero apparire fisicamente più attraenti. Trascorro gran parte del mio tempo libero a cercare significati che mi aiutino a comprendere il mondo; bramo complessità e mi diverto a raccontarvi di folli registi danesi che fanno film su lolite pop che sono al tempo streghe e vittime sacrificali... ma mentirei se vi dicessi che non vorrei essere più bello, che non venderei l'anima al diavolo per provare la sensazione di far girare le donne al mio passaggio e scatenare gavettoni di feromoni al mio solo materializzarmi all'interno di una stanza. E mentireste anche voi se mi giuraste che non ve ne è mai fregato nulla… il solo scegliere una maglietta, provarsi un vestito o guardarsi allo specchio implica un desiderio di piacere e di piacersi. Non c’è un cazzo da fare. I migliori di noi riescono a guardare anche oltre e al di là della pura apparenza estetica, ma il più delle volte ci caschiamo. Non credere alla Bellezza è molto più difficile di quanto sembri...

E' qui Filosofia morale...???
Refn ci racconta questa ossessione, che è antica quanto l’uomo, costruendo un film di pura meraviglia visiva. Ogni personaggio è un archetipo: il predatore, la modella invidiosa, la figona in declino, l’ingenuo romantico, lo sfruttatore… in un altro film sarebbero banali stereotipi; qui, invece, vengono svuotati di ogni funzione narrativa ed elevati a pura essenza. Lo stereotipo serve ad un racconto. È funzione di. L’archetipo, invece, è fine a se stesso. È tautologico. È qualcosa di cui è sufficiente l’evocazione. Nessun personaggio del film, se ci pensate bene, ha un vero e proprio sviluppo, progresso o crescita. Tutti restano esattamente quello che sono dall’inizio alla fine. 
Eccetto Jane.
E questo, probabilmente, è l’unico vero grande difetto del film. Già, perché il problema di un film che assurge a dipinto, a icona, a pura astrazione visiva, è quello di dover giustificare un cambiamento, una metamorfosi, una mutazione al proprio interno. L’archetipo, come detto, esiste in quanto tale: immutabile, eterno, immobile. I personaggi, invece, anche i più stereotipati, evolvono, cambiano, fanno esperienze e acquisiscono conoscenze. Jane parte vergine impaurita, diventa fiera predatrice e finisce vittima sacrificale. Ma i suoi cambiamenti non funzionano. Troppo repentini, assolutamente privi di giustificazioni e mai supportati da alcuna logica. Tutte vogliono essere me confessa Elle Fanning a Jena Malone in un momento topico del film. Ecco, è una frase che mi ha profondamente disturbato. È l’affermazione di una consapevolezza che stride con tutto quanto visto fino a quel punto. Quella frase riduce l'archetipo alla dimensione di un banale personaggio, ma non c’è nulla – narrativamente parlando – che giustifichi e spieghi questa rivoluzione di Jane, questa sua improvvisa e radicale nuova concezione del sé. Cosa l'ha trasformata da agnellino a pantera? Quale esperienza? Quale percorso? È un passaggio che mi ha infastidito, perché, per la prima volta, mi ha costretto a ragionare sulla storia (che non c’è) e non sul suo sublime contenitore. Jane è l'unico personaggio di un film popolato da icone e statue. Non può funzionare drammaturgicamente, perché si muove in un universo puramente estetico e squisitamente simbolico.
Magari Refn l'ha fatto genialmente a posta. Ma non credo. Anche se modelle-manichino, animali impagliati e cadaveri imbalsamati sono forti indizi a favore...

...anche se...
 Refn, un po’ come l’ultimo David Lynch, sta sempre più rinunciando alla narrazione tradizionale e abbandonando il concetto stesso di storia, per virare verso le suggestioni evocate dalle immagini, dai colori e dai suoni. In purezza. Incontaminati da esigenze narrative e drammaturgiche.
Entrambi gli autori agiscono sulle sensazioni dello spettatore e affidano al suo sguardo, al suo udito, al suo inconscio e ai suoi sensi, la chiave di accesso a un universo che, con il solo uso della ragione, non si potrebbe esplorare e comprendere appieno. 

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo...
Per tutto il resto, il film è una bomba. È un sabba fashion di streghe che danzano sotto luci fluo circondate da simboli arcani. È un susseguirsi di colori primari, triangoli e specchi, che si alternano e si sovrappongono ossessivamente come in una cerimonia pagana. “The Neon Demon” è un rito, un mantra, una messa… c’è sublimazione e cannibalismo, peccato e agiografia, Sesso e Morte. Innocenza e Necrofilia. Ecco il mio corpo, offerto in sacrificio per voi. Prendete e mangiatene tutti…
L’ultima fatica di Refn è concepita come una messa, come una cerimonia pagana in onore, ovviamente, del Demone al Neon. Come in tutte le liturgie, ci sono racconti, parabole, simboli e archetipi; c’è sopruso e sacrificio; soprattutto, c’è la forma che si sublima in sostanza. Così come i cristiani bevono il sangue e si nutrono del corpo del loro dio, così Ruby, Gigi e Sarah vampirizzano e cannibalizzano l’oggetto dei loro desideri, delle loro invidie, delle loro brame… non per niente il film si apre con l’immagine di Jane che sembra una Pietà cinquecentesca virata al fluo…

You know Michelangelo...?
In “The Neon Demon” tutto è un continuo rimando a simbologie arcane e liturgie pagane; basti pesare al personaggio di Ruby, che esalta la Bellezza truccando le modelle, per poi renderla eterna imbalsamando cadaveri… condannata a inseguire e desiderare spasmodicamente qualcosa che non ha e di cui arriverà persino a pascersi pur di possedere. La Bellezza la rifiuta, la Morte non può. Ecco perché Ruby si accoppia ai cadaveri che ha provato a sottrarre alla decadenza del tempo.

The Neon Demon” racconta l’orrore della bellezza. Orrore, ovviamente, non inteso nel senso della repulsione, ma del dolore, della paura, della ossessione. La bellezza è un dio orrorifico che pretende tributi e dispensa sofferenze. Come in un rito atzeco, in suo onore si compiono sacrifici di sangue. È una divinità che discrimina. Traccia una linea, al di qua o al di là della quale si è vivi o si è morti. Si è celebrati o invisibili. Si è salvati o condannati. Il dio al neon dispensa la luce o condanna alle tenebre. E la luce, quando è concessa, è sempre abbagliante e malata. Ovunque spuntano triangoli. Simboli per antonomasia di perfezione, proporzione e armonia pitagorica, ma anche della sessualità femminile e della trinità sacra ai cristiani e degli elementi primordiali. Ancora una volta, il rito e la liturgia. Non pensate a “The Neon Demon” come ad un semplice film. Pensatelo come una messa, dove tutto procede per formule, simboli, inni e climax. 






Refn, genialmente, per raccontare tutto questo si rifà ai codici dell’Horror (inteso come genere). 

Il cinema del terrore, da sempre, è il cinema più reazionario e, al contempo, più innovativo e provocatorio che esista. Come ha fatto brillantemente notare Goddard nel suo divertentissimo “Cabin in the Woods” è il cinema che più di tutti procede per canoni e formule. È il cinema che punisce le ragazzine un po’ troppo pruriginose, che salva le vergini e che condanna il peccato e i peccatori. Ma è anche il cinema che ha sempre sperimentato e innovato nel linguaggio (Vampyr, Nosferatu, l’Esorcista, Halloween, BWP, Il Gabineto del dr. Caligari, La notte dei morti viventi, solo per citarne alcuni), che ha sempre avuto un occhio impietoso e profetico sui veri cambiamenti della società, svelandone, spesso in largo anticipo sui tempi, falsità e menzogne (pensate allo smascheramento della retorica della Famiglia compiuta da "The Texas Chain Saw Massacre" o alla distruzone del mito della Provincia americana, che non si è più ripresa dopo che Lynch ne ha smascherato i vizi ed esposto i segreti; o quello che ha fatto Romero contro la società dei consumi). 

L’Horror non è solo una banale scarica di adrenalina. O un modo per esorcizzare la paura del buio, il terrore della morte, l’ansia che il pericolo ci possa raggiungere. L'Horror, soprattutto, è uno strumento di indagine sociale, morale e antroplogica, che ci mette davanti al nostro vero io e che, pur facendosene alfiere, ridicolizza le sicurezze borghesi e annienta le ipocrisie della contemporaneità.  Refn, che ha dimostrato di conoscere la materia, rispetta formalmente tutti i canoni: c’è la verginella pruriginosa che tutti desiderano… c’è la puttana, la stronza, il lupo cattivo, il predatore e l'ingenuo. C’è sangue, cannibalismo, streghe e vampiri… ma, il suo film, ovviamente, non è un horror.
The Neon Demon” non è concepito per farvi paura, per intrattenervi a botte di adrenalina; non ci sono spaventerelli e trucchi di montaggio per farvi saltare sulla sedia. Refn cita i maestri più congeniali al suo cinema, Argento e Bava su tutti, ma se ne discosta radicalmente quanto a intenzioni e obiettivi.


Mi aspettavo un botto di “Suspiria” dopo aver visto le prime immagini dei trailer che giravano in rete. Effettivamente, entrambi i film hanno un impianto cromatico incredibile e un impato visivo straordinario; oltre ad una colonna sonora della madonna! Tuttavia, se Dario Argento impiegava il colore in modo assolutamente espressionistico, per enfatizzare ed esasperare al massimo l’azione, Refn, invece, ne fa un uso puramente suggestivo e simbolico. Il regista danese, come detto, non è minimamente interessato a terrorizzarci, bensì a rappresentare qualcosa di profondamente terrorizzante. Che è molto diverso. Argento provoca orrore. Refn lo ritrae. Lo stesso vale per la musica. Entrambi i registi sono ontologicamente legati alle colonne sonore dei propri film. Ma, ancora una volta, per motivi diversi. Se i Goblin, in “Profondo Rosso”, vi hanno profondamente traumatizzato, contribueno a generare qualla sensazione di tensione e paura che è la ragione primaria di un film horror, Cliff Martinez, invece, vi ha incantato, ammaliato, anestetizzato; entrambi i film, senza QUELLA musica, sarebbero altro. Sicuramente, sarebbero meno. Meno spaventoso, il primo; molto meno ipnotico, il secondo. Martinez, crea un impianto sonoro che, come un mantra buddista, manda letteralmente in trance. Di nuovo, si torna al rito. Perché, come dicevamo, per Refn il genere è solo un pretesto; un punto di partenza: con “Drive”, infatti, ha concepito un crime automobilistico nerissimo per racontare una semplice storia d'amore; "Only God forgives" ibridava il melò orientale con lo spaghetti western, ma metteva in scena un dramma edipico shakespeariano; che dire, poi, di “Bronson”, in cui il biopic si trasformava in qualcosa che assomigliava moltissimo al suo esatto contrario?

Refn non è Tarantino. Il secondo è un cultore assoluto del Genere, che, salvo rarissimi casi, è sempre riuscito a rispettare, comprendere ed esaltare. Il primo è un Artista classico, che si esprime facendo ricorso a generi di cui, in fondo in fondo, non gli frega un cazzo di niente, perché l'unica cosa che gli interessa è la purezza del gesto, dell'immagine, della composizione. Tarantino è l'alfiere del Postmodernismo. Refn è un Fidia sballato con il vizio del Pop e una passione smodata per il Fluo. Con questo non voglio dire che uno sia migliore dell’altro. È solo per preparare i neofiti all'esperienza.

La cosa che più ho amato del film è che lo sguardo di Refn non è mai morale o moralistico.Semmai è estetico o estatico. Non giudica, indica. Ognuno di noi, se vorrà, potrà farsi la propria idea. Refn non racconta una storia, né predica parabole; dipinge un quadro di struggente bellezza, che, per quasi due ore, ipnotizza e rapisce lo sguardo. Il suo controllo della composizione, l'uso superbo di contaminazioni Pop, sonorità elettroniche e cromatismi pazzeschi, in uno con la sua immensa capacità di mostrare senza mai giudicare, lo rendono un Artista quasi unico nel panorama cinematografico contemporaneo e un visionario di chirurgica e spietata lucidità.

“καλὸς καὶ ἀγαθός ("kalos kai agathos") dicevano i greci antichi. Quasi che il bello non potesse non accompagnarsi necessariamente anche al buono, al valoroso, al virtuoso. È un concetto che ci sta fottendo da millenni. La perfezione fisica in uno con la perfezione morale. Il film di Refn, che vorrebbe smascherare l'automatismo con cui troppo spesso e da troppo tempo si associano i due concetti, finisce forse per restare prigioniero della propria stessa vacua bellezza, troppo impegnato a specchiarsi e contemplarsi per accorgersi di aver già sbattuto il muso contro i pericoli da cui provava a metterci in guardia.

"The Neon Demon" può essere visto come un meraviglioso manufatto di cristallo, fragile e (forse) inutile come un soprammobile, viziato da eccesso di narcisismo e vuoto come un calice di champagne alla fine di una festa (ancora triangoli)... o, magari, è proprio quello su cui Refn vuol farci riflettere.

Per alcuni sarà l'opera di un genio. Altri ne contesteranno la vacuità, dentro la pur meravigliosa confezione. I primi lo adoreranno; i secondi, probabilmente, saranno comunque indulgenti D'altronde, non è forse vero che la bellezza tira i carri di buoi, muove le nazioni in guerra... e si fa perdonare quasi tutto? 

Meditate, gente, meditate...



GIUDIZIO SINTETICO: “The Neon Demon” sembra uno spot di profumi lungo due ore, che pure, grazie proprio alla sua imensa e prodigiosa meraviglia, ci inchioda alla poltrona in estasi, mostrandoci costantemente il trucco che ci ostiniamo a non voler vedere: ciò che è bello, non è detto che sia anche buono. Non piacerà a molti e deluderà i fans di Leatherface, ma è quasi meglio di una gita al Moma.

VOTO: 7,5





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