11/12/12

ARGO (di Ben Affleck)




Film tosto e solidissimo, questo “Argo”.

La terza fatica di Ben Affleck, dopo il discreto esordio di “Gone baby gone” e l’interessante “The Town”, non solo permette al giovane regista di superare a pieni voti l’esame di maturità, ma rischia seriamente di trasformarsi nella sua piena e definitiva consacrazione.

Già premio Oscar per la sceneggiatura di ”Will Hunting”, Affleck si appresta, con buona probabilità, ad aggiudicarsi la celebre statuetta anche per la regia.
D’altronde, sarebbe impensabile che Hollywood si lasciasse scappare l’occasione di premiare un film in cui il cinema, o meglio gli Studios, pur con tutti i loro difetti e idiosincrasie, appaiono per una volta come i veri salvatori del mondo.

Ma andiamo con ordine.
Nel novembre 1979, dopo che il governo U.S.A. (“il grande Satana”) aveva dato asilo al perfido scià iraniano Mohammad Reza Pahlavi, un gruppo di miliziani invade l’ambasciata americana di Teheran, facendo prigioniero tutto il personale in essa ospitato. Durante il raid, sei impiegati riescono a fuggire senza che nessuno si accorga di loro.
Mentre l’opinione pubblica resta col fiato sospeso per la sorte degli oltre cinquanta diplomatici caduti in mano dei seguaci di Khomeyni (che resteranno prigionieri per 444 giorni), l’intelligence statunitense deve trovare il modo di salvare la pelle ai sei concittadini rifugiatisi in gran segreto presso l’abitazione del console canadese. I miliziani, infatti, stanno ultimando le operazioni di ricostruzione dei documenti distrutti durante il raid e, presto o tardi, si accorgeranno che sei americani mancano all’appello. Visto che in città i nemici del popolo pendono appesi per il collo ai lampioni, è facile immaginare quale sarà la sorte dei sei poveretti una volta scoperti.

Ma come si può esfiltrare sei burocrati, privi di addestramento, da un paese nel quale la caccia allo yankee è diventato lo sport nazionale? E come farlo senza che i miliziani scoprano il coinvolgimento del governo U.S.A. prendendosela con gli ostaggi?
I servizi segreti, in merito, non hanno idee proprio brillanti: il miglior piano dell’intelligence è quello di aspettare la primavera, dotare i sei poveretti di altrettante biciclette e farli pedalare per centinaia di chilometri, in terra ostile, sino al confine. Beh, se questa è l’opzione migliore, vi lascio immaginare le alternative...



Nessuno vuole sobbarcarsi la patata bollente, destinata a scottare chiunque vi ci appoggi le mani, ma Ben Affleck (che interpreta l’agente operativo Tony Mendez) ha un piano: i sei fuggiaschi potrebbero essere fatti passare per membri di una troupe cinematografica canadese in cerca di location esotiche per un film di fantascienza. Terminati i sopralluoghi, tutti a casa!
Il piano è talmente bizzarro che potrebbe anche funzionare: due vecchie glorie di Hollywood (interpretate da John Goodman e Alan Arkin, veri mattatori della pellicola) aiutano l’agente Mendez ad organizzare la messa in scena: in quattro e quattr’otto si compra una sceneggiatura (la contrattazione col rappresentante del sindacato scrittori è semplicemente strepitosa), si organizza un piano di lavorazione, si buttano giù quattro storyboard e, soprattutto, si dà il tutto in pasto alla stampa.
Et voilà! la copertura è perfetta e il finto film sembra veramente in corso di lavorazione. Affleck può partire alla volta dell’Iran per guidare personalmente il recupero.

Naturalmente, proprio sul più bello, qualcuno alla C.I.A. si accorge che il piano non è propriamente infallibile e che sarebbe una pessima figura internazionale se si scoprisse che l’Agenzia, non solo ha tentato di estrarre clandestinamente sei diplomatici da una nazione sovrana e per giunta ostile, ma che l’ha fatto usando come copertura il finanziamento di un pessimo b-movie…


Ma questo è un film di eroi e di speranza che sembra incarnare perfettamente lo spirito di quel “Yes, we can” divenuto simbolo e logo del cambiamento auspicato in questi tempi di crisi. Non è un caso che la pellicola esca all’alba delle presidenziali americane, quasi a voler preannunciare e celebrare la rielezione di Barack Obama (ed, infatti, non manca chi ha già eletto “Argo” a manifesto del rinnovato spirito democratico: finito il medioevo dell’era Bush, gli U.S.A. si rifanno il trucco e si ripresentano al mondo con una nuova immagine: basta vendette, guerre sante e crociate! i nuovi americani sono duri ma buoni, indisciplinati ma efficienti, indipendenti, coraggiosi e soprattutto vincenti.

Così, l’agente Mendez disubbidirà agli ordini dei suoi superiori, completando la missione e rischiando la pelle pur di non abbandonare i sei poveretti al loro infausto destino, mentre qualche agente, a Langley, rischierà la carriera per coprirgli le spalle.
Pur tra mille difficoltà, i sei verranno portati pacificamente in salvo e, varcato lo spazio aereo iraniano, potranno finalmente brindare a champagne.


È assolutamente affascinante quanto la realtà sia sempre molto più inverosimile della finzione: se questa non fosse stata una storia assolutamente vera, credo che nessuno l’avrebbe mai presa per plausibile. Centinaia di thriller e film di spionaggio ci hanno restituito l’immagine di un mondo governato da burattinai astuti ed infallibili, ideatori di complotti incredibili e complessi, dotati di intelligenze straordinarie e capacità sopraffine. La realtà è molto più terra terra. Infatti, non sono i burattinai ad esser dei geni, ma siamo noi, la cosiddetta opinione pubblica, ad essere completamente rimbambiti. Burattini assuefatti alle stronzate che ci fanno quotidianamente fagocitare i mass media.
Nessuno spirito critico; mai un alone di dubbio; nessuna incertezza.
Un esempio? prendete l’omicidio di Kennedy. Trattandosi del presidente degli Stati Uniti d’America (e presupponendo burattinai ingegnosi), il piano per il suo assassinio avrebbe dovuto essere diabolicamente perfetto (o, quantomeno, plausibile). Invece, puzzava di complotto già mentre la povera Jacqueline raccoglieva dai sedili della macchina i pezzi di cervello ancora caldi del marito: fori di entrata non coincidenti con la posizione del presunto cecchino; traiettorie di tiro impossibili e “pallottole magiche” capaci di provocare sette ferite con un colpo solo su due persone diverse; aggiungete un capro espiatorio costituito da un ex marine, mediocre tiratore, che avrebbe colpito ripetutamente un bersaglio in movimento da un chilometro di distanza e – chicca finale – concludete il tutto con l’omicidio del cecchino, subito prima del processo, ad opera di un ex pappone convertitosi improvvisamente a fervido patriota. Con uno script del genere nemmeno la Troma avrebbe prodotto il film; e invece, con uno script del genere, hanno fatto fuori J.F.K. e l’hanno pure fatta franca!
Ribadisco: se si analizzasse la realtà con lo stesso rigore con cui si giudica la plausibilità di una sceneggiatura, probabilmente vivremmo in un mondo migliore.
Questo film ha il merito indiscusso (per quanto assolutamente involontario) di farci riflettere sulla pochezza dei burattinai e, di riflesso, sulla miseria del nostro spirito critico.



Tornando alla pellicola, essa è strutturata in tre parti.
L’inizio è folgorante e con uno stile fortemente reportagistico. Le sequenze ricalcano fedelmente le immagini dei telegiornali e delle fotografie dell’epoca. La macchina da presa a spalla restituisce un senso di traballante precarietà e di forte dinamismo. La ricostruzione storica è perfetta e maniacale, non solo nella scelta dei costumi e degli oggetti di scena, ma anche e soprattutto nelle scelte registiche. La fotografia è sporca, sgranata e giallastra, mentre la regia è palesemente “old style”: paradigmatico, in questo senso, l’inizio del film. Affleck ci catapulta nel pieno dell’azione, il raid all’ambasciata... ma, in netta antitesi con il cinema degli ultimi quindici anni, niente funambolismi parkour o acrobazie wuxiapian; niente karate, capoeira o ju-jitsu; totale assenza di capriole e salti che sfidano la gravità… i miliziani entrano disordinati e imbufaliti, gli assediati se la fanno giustamente nei pantaloni; l’azione segue coreografie volutamente non spettacolari e, quindi, risulta fortemente realistica. In breve, l’ambasciata è presa e i diplomatici sono catturati. Ovviamente, salvo i sei fuggitivi.

La seconda parte è centrata sul magico mondo di Hollywood, nel quale le menzogne diventano promesse e la farsa diventa realtà (non a caso, le sequenze degli Studios si alternano a quelle degli uffici di Langley, in un riuscito valzer che omaggia e compara i due grandi Regni della Finzione).
Tutta la messa in scena gioca sui cliché dell’industria dell’intrattenimento: soggetti orribili, agenti senza scrupoli, registi incapaci (“anche un chihuahua può diventare regista in 24 ore”) e attori negati. Tutti recitano il proprio ruolo, nella realtà quanto nella finzione scenica, e persino il navigato agente operativo Mendez deve chiedere soccorso a due aiutanti (Goodman e Arkin, appunto) per poter affrontare questo inferno di lustrini e paillettes capace purtuttavia di materializzare l’impossibile e render plausibile l’incredibile.



La terza parte, infine, è una lunghissima sequenza costruita con un abile montaggio alternato che segue contemporaneamente almeno quattro scenari: le logoranti operazioni di imbarco all’aeroporto, la corsa dei miliziani accortisi finalmente dell’escamotage, gli sforzi dell’agente O’Donnell (il sempre ottimo Bryan Cranston) che arriverà a scomodare persino il presidente Carter pur di far revocare l’ordine di annullamento dell’operazione e gli splendidi Goodman ed Arkin che, ad Hollywood, gestiscono la copertura della finta casa di produzione.
Il tutto, in un crescendo di pathos che inchioda letteralmente alla poltrona.


Se il film ha un difetto, è quello di cedere ad una facile retorica che crea nello spettatore una totale immedesimazione ed una forte partecipazione emotiva per la sorte dei protagonisti. Questo processo, estremamente funzionale alle logiche dell’intrattenimento, paga inevitabilmente lo scotto di offrire rappresentazioni semplicistiche e assai schematiche della Storia.
Gli autori, consapevoli del pericolo, costellano lo script di situazioni e battute volte a rendere il contesto un po’ meno partigiano e la ricostruzione degli eventi leggermente più fedele all’obiettività critica (ad un certo punto, un agente di Langley afferma addirittura che, in fondo, i miliziani hanno anche le loro ragioni per essere incazzati con gli americani visto che il governo statunitense ha prima appoggiato e poi offerto protezione ad un governante, lo scià, che ha distrutto l’identità culturale del proprio paese, dopo averlo affamato e depredato di ogni risorsa). Non è molto e non è sicuramente abbastanza, ma per un film americano è comunque qualcosa da non disprezzare.
Come dicevo, gli sforzi tesi a compensare la partigianeria emotiva verso le ragioni dei sei fuggiaschi e volti a non ridurre i miliziani iraniani a meri rappresentanti del Male Assoluto, non sono sufficienti per riportate la vicenda dentro i complessi e multiformi binari della obiettiva verità storica.
Non c’è nulla da fare, la struttura drammaturgica e la formula narrativa adottata conducono, inevitabilmente, a tifare per il successo di una parte a scapito dell’altra. Il regista e gli sceneggiatori hanno fatto una precisa e consapevole scelta di campo: tra i tutti i differenti punti di vista presenti nel film (Servizi segreti, Congresso, Miliziani, Alta diplomazia Internazionale, Stampa) lo spettatore è emotivamente indotto a sposare quello più semplicistico, ossia quello dei sei diplomatici in pericolo di vita.
Questa scelta, purtroppo, favorisce le ragioni dell’empatia a quelle della comprensione storica. E quando in ballo c’è la sopravvivenza, le sfumature e le complessità del reale cedono inevitabilmente il posto ad altre più basilari e primordiali forme di interpretazione del mondo, facendo precipitare drasticamente l’asticella dell’analisi e della comprensione verso un livello di basici schematismi e di immediata lettura. Ecco allora ridursi tutto a pura contrapposizione di valori antitetici: bene o male, buoni o cattivi, vittime o carnefici. Se sposo emotivamente il punto di vista del fuggiasco, vedrò sempre il cacciatore come un nemico e le sue ragioni mi rimarranno indifferenti. Gli autori hanno deciso che noi spettatori partecipassimo agli eventi distinguendo ruoli e situazioni attraverso la lente deformante dell’empatia e attraverso un percorso emotivo che si trasforma in lettura storica: chi da la caccia ai “buoni” deve necessariamente stare dalla parte dei i “cattivi”.
Tutto ciò, in un film che vorrebbe essere anche politico, lascia un amarognolo retrogusto di occasione mancata.
A difesa del giovane regista americano, devo comunque aggiungere che sono ben pochi i film che sono riusciti a restituire le infinite sfumature della verità storica mantenendo al contempo una intensa partecipazione emotiva.
Affleck, nel suo piccolo, ha avuto il coraggio di spandere qualche pennellata di grigio su una tela fortemente caratterizzata dal bicromatico contrasto del bianco e del nero.



GIUDIZIO SINTETICO: analisi politica e storica a parte, mission accomplished!

VOTO: 7+








Nessun commento:

Posta un commento