11/01/16

THE HATEFUL EIGHT (di Quentin Tarantino)





Tarantino torna nelle sale con "The Hateful Eight", che riesce ad essere, al contempo, titolo, manifesto e perfetta sinossi del suo ultimo lavoro. Come già fece il sommo Fellini, il ragazzaccio di Knoxville titola la sua ultima fatica con un numero, l'otto appunto, a cui si sente in dovere di appioppare l'aggettivo "hateful", tanto perché non vi siano equivoci in ordine al mood generale. Eight, dunque, perché trattasi dell'ottavo lungometraggio della sua brillante filmografia ed hateful perché, tra tutti, è sicuramente quello - almeno nelle intenzioni - potenzialmente più indigesto. Ma hateful eight, come detto, costituisce anche il perfetto sunto della pellicola, dal momento che, "otto bastardi", sono anche l'unica cosa di cui il film parla; già, perché le tre ore abbondanti di proiezione non servono per articolare una storia, per dare corso ad un complesso intreccio narrativo o per sviluppare una trama, bensì - molto semplicemente - per mettere otto brutti ceffi nella condizione di trovarsi, tutti insieme, rinchiusi in un capanno in mezzo al nulla, mentre fuori imperversa una terribile tormenta di neve. Fine del film. Ovviamente, c'è una ragione che li ha portati tutti lì e ci sono pure un paio di twist e una gran bella metafora. Ma quello che conta, l'unica cosa che interessa veramente a Tarantino, sono gli otto bastardi.

E non c'è dubbio che i nostri protagonisti siano veramente tali: ognuno di loro si prende tutto il tempo per entrare in scena, presentarsi ed offrire il peggio del proprio campionario umano. Ognuno di loro è, fin da subito, programmaticamente volgare, violento, aggressivo, spietato, razzista e subdolo. Ognuno rappresenta il peggio di sé e della propria specie, sia essa ideologica, sessuale o razziale. Nessuno cerca di dissimulare la propria orrenda natura (semmai, dissimula i propri fini); anzi, sembra quasi che ciascuno di loro provi una sorta di perverso piacere a mostrarsi agli altri protagonisti (così come agli spettatori) in tutta la propria assoluta nefandezza.

Quindi, mettetevi belli comodi perché va in scena "l'ottavo odioso" (nel senso del film), che racconta di "otto stronzi" (nel senso della trama).



Prima considerazione: questo film ha già fatto discutere moltissimo di sé prima ancora di uscire nelle sale e, sicuramente, la polemica tra detrattori e fans si protrarrà a lungo. Ma chi ha ragione? Non per fare il socialdemocratico qualunquista, ma, mai come in questo caso, il giudizio dipende veramente da cosa ci si aspetta da un film di Tarantino.

Già, perché il nostro affezionatissimo, come pochi altri registi al mondo, ha il problema (da un punto di vista strettamente creativo) di doversi confrontare, da un lato, con una posse di fans sfegatati che non può assolutamente concedersi il lusso di deludere, dal momento che rappresentano lo zoccolo duro grazie a cui può permettersi di saldare i propri conti al ristorante.
Dall'altra, deve vedersela con una crew di detrattori sempre pronti a lapidarlo e a denigrarlo.
Per i primi, Tarantino è un genio che deve essere libero di fare il cazzo che vuole, a patto che faccia sempre "Pulp Fiction", riempia i suoi film di citazioni sempre più postmoderne, costruisca linee di dialogo sempre più assurde e divertenti e ci metta un sacco di violenza a cementare il tutto. 
Se no: #ormaitiseiimborghesito #mapulpfictionerapiubello e #rivogliamoilroyalcolformaggio. 
Per i secondi, invece, Tarantino è solo un ciarlatano; uno che non sa un cazzo di regia, ma che sa solo rubare a destra e a manca; è un furbacchione che non ha niente da dire, anche se lo dice in modo brillante, nascondendo il vuoto delle sue idee dentro un calderone di dialoghi deliranti e citazionismi più o meno manifesti; uno che dà in pasto ai suoi spettatori violenza e parolacce, perché non ha altro di meglio da offrire.


Capirete bene che, se siete un regista-sceneggiatore che vuole campare facendo film, questo non è un problema da poco, dal momento che il fan (che è quello che paga il biglietto, i dvd e tutto il merchandising) cerca e pretende da Tarantino proprio quello che il suoi detrattori (che, spesso, neanche vanno a vedere i suoi film) aborrono e gli contestano.

Bisogna dare atto al nostro ragazzone di non essere uno che ci ha voluto marciare sopra. Poteva benissimo accontentarsi di vincere facile e di essere un Guy Ritchie qualunque, guadagnando fantastrilioni limitandosi a girare film stilosi e costantemente ammiccanti verso i piaceri della fandome. Era una bella tentazione, no? Invece Tarantino si è sempre preso i suoi bei rischi, girando pellicole sempre diverse ed esplorando, via via, tutti i suoi generi preferiti: dal wuxia all'exploitation, dallo spaghetti western al gore... Insomma, potete dire quello che vi pare, ma c'è voluta una bella dose di coraggio a girare, subito dopo il successo di "Pulp Fiction", una roba come "Jackie Brown", che, pur essendo uno dei suoi film più belli e riusciti, rimane ancor oggi uno dei meno capiti e apprezzati della sua filmografia. Credo, tuttavia, che dopo "Inglorious Basterds", il suo ultimo - vero - capolavoro, la sua vena creativa si sia un po' inaridita. "Django", nonostante gli ottimi incassi e le ottime recensioni, è stato un film manierista e molto poco riuscito. Tarantino, forse per la prima volta, ha cercato di accontentare tutti: da un lato, il pubblico degli appassionati, a cui ha regalato citazioni a profusione e sbudellamenti a nastro; dall'altra, la critica più severa, che si è imbonito trasformando il suo film nel manifesto dell'antischiavismo e della lotta alla discriminazione. Apparentemente tutti contenti: ottimi incassi e tanti bei premi in bacheca. Ma la mia impressione è che Quentin, nel tentativo di salvare capre e cavoli, si sia perso nel manierismo dell'autoreferenzialità e, soprattutto, abbia tradito lo spirito di un genere (tra l'altro, uno dei suoi favoriti).

Seppur non lo ammetterebbe neanche sotto tortura, il buon Quentin sapeva che con "Django" aveva fatto una cagata colossale e che aveva molto da farsi perdonare. Più da se stesso, forse, che dal resto del mondo. Perché, da sommo conoscitore e massimo esperto di certo cinema, lui, più di tutti, sapeva di aver fatto un film di forma più che di sostanza: troppo buonismo, troppi ammiccamenti, troppe buone intenzioni, troppi nobili intenti e, soprattutto, nessun rischio.

Ecco, perché era necessario rimanere ancora dentro il genere western ed ecco perché, questa volta, Tarantino è tornato a fare film per se stesso e a concentrare tutte le sue energie nella costruzione di immensi personaggi, piuttosto che perdersi dentro la retorica buonista di banali parabole poco congeniali al suo cinema. La morale, il politically correct e le buone intenzioni lasciamole pure agli altri. Ciascuno deve fare il proprio mestiere e Tarantino è il migliore di sempre a raccontare il contemporaneo mentre si diverte un mondo a far il cazzo che gli pare. Voglio dire: Tarantino è indiscutibilmente tra i migliori sceneggiatori della sua generazione; eppure - salvo, appunto, Django - non è certo diventato quello che è diventato grazie alla profondità delle sue trame o alla complessità dei suoi sviluppi narrativi. Neanche quel capolavoro di "Jackie Brown", che pure ha una storia bella articolata, avendo alla base un romanzo di Elmore Leonard, deve la sua bellezza all'originalità dell'intreccio. Di "Jackie Brown", probabilmente, non ricorderete neanche la trama, ma è un film che vi ha fatto riscoprire la sensualità della black music, il fascino del funky, la bellezza di certe atmosfere noir e che ha avuto le palle, in pieni anni '90, di mettere una donna al centro della vicenda, per giunta bella avanti con gli anni e pure nera. Tutto questo, emergeva dal virtuosismo dei dialoghi, dai lunghi piani sequenza accompagnati da caldissime note soul, dagli assurdi sketch che nulla centravano con la trama principale, ma che ci restituivano il più sincero ed impietoso ritratto dell'America di fine millennio: un posto estremamente violento, popolato da cialtroni pesantemente armati, stupidi e maschilisti.



Ecco, dunque, perché c'era bisogno di "The Hateful Eight". Perché Tarantino ne aveva bisogno! Aveva bisogno di tornare a fare i suoi film strampalati, popolati da personaggi sempre sopra le righe, dentro situazioni sempre al limite e costruiti su interminabili linee di dialogo.
Tarantino, memore degli errori di Django, passa da un estremo all'altro: "The Hateful Eight", infatti, rinuncia ad una trama vera e propria e si concentra nel mettere in scena un universo popolato esclusivamente da rappresentanti del Male Assoluto. Finalmente! Via i cow-boy col cappello bianco, i paladini della giustizia, i Tex Willer della domenica... Via i pistoleri antischiavisti e a farsi fottere i buoni samaritani e le giovani innocenti fanciulle da salvare... Finalmente, si torna a parlare di un mondo, quello dell'America di fine ottocento (che non è poi così diversa da quella di oggi), in cui la violenza era all'ordine del giorno, il sopruso un diritto costituzionale e la legge era quella di chi estraeva per primo. 

Bum!

Tarantino, a 'sto giro, dimentica ogni prudenza e si impegna al massimo per dare vita a otto personaggi che sono tra i peggiori da lui mai messi in scena. E, soprattuto, torna a fare quello che gli riesce meglio, ossia a raccontare e rappresentare il mondo senza voler fare la lezioncina a nessuno, divertendosi come un bambino a fare l'occhiolino a tutto il cinema che ama (Carpenter, Corbucci, Leone in primis) e a costruire anti-eroi alle prese con situazioni sempre più bizzarre. 

Tarantino is back, dunque?


Ni!

Non mi ha convinto, ad esempio, il fatto che il genere sia molto più evocato che affrontato. Se l'omaggio allo spaghetti-western del suo film precedente era risultato un piatto scondito e insipido, quello al western vero e proprio è riuscito solo a metà. Se, infatti, togliete cappellacci, ponchi e divise dell'Unione, del genere che fu caro a John Ford e Howard Hawks rimane veramente molto poco. Siamo molto più dalle parti di Agata Christie che non di Elmore Leonard, tanto per capirci. Non ci sono frontiere da raggiungere, badlands da esplorare, amicizie virili da cementare. Non ci sono le cavalcate al tramonto e gli attacchi alla diligenza... non c'è la solitudine dell'eroe, il dualismo manicheo tra il Bene e il Male, non c'è il confronto tra la Natura e la Civilizzazione, tra l'Ordine e il Caos, tra il Codice della Legge e quello della Pistola... Certo, questa volta, almeno ci sono i brutti ceffi. C'è violenza, vomito e sangue da far impallidire il miglior Peckimpah. E c'è quel senso di mancanza di morale, di assenza di un ordine costituito e di latitanza del concetto stesso di giustizia, che sta alla base di ogni buon western. Ma ne manca il contesto. Ne manca l'antagonista o, quanto meno, la vittima. Mi va da dio che in un film non ci siano i "buoni". Ma se decidi di mostrarmi solo i "cattivi", non puoi prescindere dalle loro vittime. Senza le sofferenze e le pene delle seconde, non può nascere la repulsione e il disgusto per i primi. Se per esaltare un eroe è necessaria una grande nemesi, per esaltare un terribile villain c'è bisogno, quantomeno, di un contesto in cui farlo operare. Pensate a "Mad Max: Fury Road": i règaz che popolano l'Aftermath di Miller non sono certo degli stinchi di santo, ma la loro crudeltà è efficace, pur in assenza di un vero e proprio eroe positivo (che Max, ormai, non è più), grazie alle loro vittime e martiri. E ce n'è a profusione: bambini affamati e assetati; prigionieri torturati e frustati; uomini ridotti a meri pezzi di ricambio biologici; donne schiavizzate sessualmente e rese vacche da mungere e da spremere a fini riproduttivi.
In altre parole, occorre la personificazione delle conseguenze che quel Male ha prodotto.



Il film è sbilanciato: l'assenza di antagonisti positivi o di vittime sacrificali (che rimangono quasi completamente sullo sfondo della vicenda), impedisce al film di essere disturbante quanto avrebbe potuto. So che è stata un'operazione voluta, ma il risultato non mi ha convinto fino in fondo. Tarantino ci ha tenuto tantissimo a ribadire, in ogni intervista, che gli otto protagonisti del suo film sarebbero stati i peggiori bastardi possibili immaginabili. Come se questo fosse un elemento di particolare originalità o rappresentasse chissà quale merito. La storia del cinema conosce centinaia di pellicole in cui i protagonisti sono degli stronzi. E, se ci pensate bene, non è che negli altri film di Tarantino ci fossero così tanti esempi di moralità e rettitudine. Di sicuro non c'erano ne "Le iene" e nemmeno in "Pulp Fiction", per non parlare di "Kill Bill" o di "Inglorious Basterds"... La differenza, semmai, è che qui si sente puzza di forzatura: la crudeltà ed efferatezza dei nostri otto feroci protagonisti suona troppo eccessiva per essere credibile, e troppo insistita per essere spiazzante. C'è troppa poca autoironia e, al contempo,  non abbastanza realismo perché il gioco funzioni a dovere. O giochi con l'una (Vincent Vega) o spingi sull'altra (Hans Landa). Se stai a metà, rischi di impantanarti in un teatrino che non va da nessuna parte. Qui abbiamo otto stronzi che giocano così tanto a fare i duri e a dichiararsi tali che, quando lo fanno veramente, tu ti aspettavi comunque molto di più. Ma vi ricordate quanto erano annichilenti e spiazzanti i vari Zed, Bill, Marcellus Wallace e compagnia cantanti...? Quello che ti sconvolgeva nelle esplosioni di violenza e nella cinica crudeltà dei personaggi di Tarantino era soprattutto il fatto che, quei personaggi, ti stavano tremendamente simpatici e tu tifavi per loro. Unitamente al fatto che, quei personaggi, potevano essere il tuo cartolaio e il tuo meccanico. Ma come...? Possibile che quella sagoma di Vincent Vega, che mi fa così ridere, sia un prezzolato sicario della mala, oltre che un tossico marcio? E quel gran simpaticone di Brad Pitt...? Insomma, è uno che si diletta a collezionare scalpi!!!!!! È questo che manca, o di cui io, almeno, ho sentito la mancanza. La ricercata ed esasperata antipatia e anormalità dei suoi nuovi personaggi costituisce, forse, il più grande limite del film. I loro eccessi li rendono altro rispetto al quotidiano; rispetto a noi! La forza di "Pulp Fiction" era stata quella di farci scoprire che si poteva andare a massacrare quattro tizi nel mentre si discuteva amabilmente di patatine con la maionese e di massaggi ai piedi. Che il mestiere del sicario poteva essere vissuto come quello dell'impiegato alle poste. E che la violenza è qualcosa di NORMALE che appartiene e connota TUTTI NOI e TUTTA LA NOSTRA SOCIETA'.  Quanto è dannatamente sconcertante e destabilizzante scoprire di provare simpatia per i cattivi, piuttosto che averne paura o sbattersene altamente del loro destino perché troppo dichiaratamente tali? Certo, alcuni degli otto ci stanno più simpatici degli altri, ma lo si deve più al carisma degli attori che non alle caratteristiche intrinseche dei personaggi. Non a caso, la migliore e più riuscita caratterizzazione è senza alcun dubbio quella dello sceriffo Chris Mannix. Ma lo si deve molto di più alla straordinaria interpretazione di Walton Goggins, che recita in stato di assoluta grazia, piuttosto che al suo personaggio in sé. Goggins riesce a creare quel perfetto mix di gigioneria e repulsione che lo ha reso il miglior secondo violino della storia delle produzioni seriali. Goggins è come Scottie Pippen! Magari da solo non ti porta al titolo, ma, senza di lui, Jordan non ne avrebbe sicuramente vinti sei e la storia del basket moderno avrebbe avuto un altro corso. Come Scottie per il gioco della palla a spicchi, Goggins riesce a far brillare di luce riflessa chiunque gli stia accanto; per giunta, senza nemmeno darlo troppo a vedere. Insomma, grazie a Goggins abbiamo tutti creduto che Chiklis fosse un buon attore e che persino Timothy Olyphant potesse avere più di due espressioni... Per quanto voglia incondizionatamente bene ad entrambi, provate a guardare che attori sono senza Walton accanto e poi ne riparliamo...



Comunque, stavamo parlando della fedeltà al genere. Ebbene, anche questa volta, seppur in misura minore rispetto al film precedente, Tarantino cicca il confronto. Il preannunciato western, con tanto di riprese in 70mm, lenti anamorfiche Panavision e aspect ratio di 2.75:1, è tutto in due inquadrature due a inizio film, per poi trasformarsi in un Agata Christie dentro un capanno. E i paesaggi che evocano la frontiera? Dove sono i territori desolati, le no man's land e le praterie sconfinate? Non c'è nulla - nelle immagini, nei temi trattati o nei valori evocati - che richiami il genere western. Nè quello a stelle e strisce, né quello in salsa spaghetti. Lo stesso film poteva essere benissimo ambientato ai Caraibi o in Norvegia. Nel Medio Evo così come nel futuro prossimo remoto. L'idea di un western tutto in interni è semplicemente geniale. Come quella che ebbe Polanski quando con "Chinatown" diede vita ad uno dei più bei noir di sempre, girandolo tutto di giorno, sotto l'accecante sole della California. L'ossimoro di Tarantino, tuttavia, funziona solo in parte. Il genere, come detto, è molto più evocato che affrontato e viene rispettato più nella forma che nella sostanza. Certo, ci sono sparatorie, carovane, il topos del cibo consumato in ciotole fumanti con mestoloni di legno, Statson di tutte le forme e dimensioni e divise sudiste e nordiste. Ma la sostanza dice che il film è dieci piccoli indiani con il cappello da cow-boy! 


La messa in scena, in ogni caso, è eccezionale. Il cast, prescindendo dai citati limiti di caratterizzazione dei singoli personaggi, è in gran spolvero ed è costituito da una posse di alcune delle più belle brutte facce di Hollywood: Samuel L. Jackson, Tim Roth, Michael Madsen, Kurt Russell, Bruce Dern, Jennifer Jason Leight e Walton Goggins fanno a gara per aggiudicarsi il titolo di peggior figlio di puttana dell'anno e danno tutti l'impressione di divertirsi moltissimo. Il film mi ha ricordato un sacco "Oz", una serie clamorosa di HBO in cui un penitenziario di massima sicurezza diventava il simbolo e la metafora dell'intero continente americano e dell'intero sistema repressivo penale a stelle e strisce. Ecco, Tarantino compie un miracolo analogo e, tra dialoghi sconclusionati, sparatorie improbabili e sbudellamenti vari, riesce a raccontare impietosamente di un'America ancora profondamente divisa per ragioni culturali, religiose e razziali. Un'America armata e violenta, multietnica e non affatto integrata. Degli Stati che sono Uniti per il resto e contro il resto mondo, ma che non lo sono affatto al proprio interno. Non esiste un popolo americano, che si sente tale nel cuore, nell'anima e nella pelle. Esistono decine di razze, alfabeti, lingue e colori in perenne contrapposizione tra loro, che convivono (a fatica) dentro un complesso equilibrio che sovente degenera nella più assurda delle violenze. Questa America (di ieri e di oggi), perennemente spaccata in fazioni, separata al suo interno da odi atavici e dilaniata da guerre di razza e di fede, è quella di cui ci parla Tarantino con i suoi otto bastardi bianchi e neri, maschi e femmine, nordisti e sudisti, cittadini e campagnoli, messicani ed inglesi. Così, otto bastardi costretti a convivere sotto lo stesso tetto, diventano lo specchio dentro cui può amaramente riflettersi una nazione di trecento milioni di persone, che condivide ancora a malavoglia lo stesso territorio, sempre pronta ad esplodere ed assolutamente incapace di sentirsi UNA, se non quando minacciata dal Comunismo, dagli Alieni o dai Bin Laden.



Questo è il Tarantino che funziona a meraviglia. Quello più efficace, più brillante e più geniale. Quello che è capace di analizzare e raccontare il contemporaneo senza neppure rendersene conto.

E' vero: Tarantino cicca il western, produce un film troppo lungo, troppo artificiale, troppo inutilmente verboso e troppo stilosamente violento per colpire duro quanto vorrebbe. I dialoghi non graffiano, la violenza non disturba, la regia non ammalia. Non mi ricordo una singola linea di dialogo che valga la metà di una qualunque battuta di "Pulp Fiction" o de "Le Iene". E il film non diverte abbastanza da far venir voglia di una seconda visione. Eppure, è anche uno dei più brillanti e clamorosi film politici che l'America sia riuscita a produrre negli ultimi dieci anni. Era un pezzo che non si vedeva un film con una visione tanto lucida, spietata e drammaticamente sincera del vero volto del popolo americano. Quaranta minuti di meno e un paio di battute migliori e avremmo avuto l'ennesimo capolavoro. Invece, è solo un buon film, che di questi tempi, comunque, avercene.





VOTO: 7--

GIUDIZIO SINTETICO: l'Ottavo odioso film di Tarantino racconta la storia di otto stronzi. In tre ore, con quel cast e quei mezzi si poteva fare qualcosa di più. Ma rimane comunque tanta roba.






2 commenti:

  1. Secondo me sei stato un po' troppo severo, ma ci sta, se ti sei infilato nel primo gruppo di spettatori, quelli che da Tarantino si aspettano sempre Pulp Fiction.
    Inoltre, purtroppo, ci sono espedienti narrativi e cinematografici che funzionano ottimamente la prima volta che vengono usati, discretamente la seconda, e dalla terza in poi non funzionano più, o li dai per scontati.
    Hateful Eight non è un Western, è Le Iene con più incognite. E' un film in cui Tarantino si autocita molto, forse troppo. E' un film in cui i dialoghi e i toni sono sempre eccessivi, ma lo sono per un motivo ben preciso, che ci sta perfettamente: quelli che "aspettano" sono incazzati neri, quelli che "indagano" cercano di far saltare i nervi a tutti.
    Detto ciò, per me, l'unico difetto del film è che il primo tempo è un po' troppo lento, si poteva fare in un'ora, invece che in un'ora e mezza. Per il resto l'ho trovato assolutamente bellissimo, me lo sono proprio goduto. Per il mio gusto, dialoghi, regia, colonna sonora, funziona tutto alla perfezione. Esco dal cinema, e dico "cazzo che bello!". Gli do 8. Se non avesse fatto Le Iene, gli darei 8,5.

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  2. Speravo proprio di non aver dato questa impressione. Da Tarantino non mi aspetto affatto sempre Pulp Fiction, anzi. Il fatto che consideri "Jackie Brown" uno dei suoi film migliori credo che dovrebbe dirla lunga... il punto è che "Django" e "The Hateful Eight" costituiscono le due incursioni di Tarantino nel western. Col primo ha veramente toppato (considerate le premesse con le quali lui stesso ha presentato il suo film); con il secondo ha fatto un gran bel lavoro, che col western, però, c'azzecca il giusto. Ebbene, la mia impressione è che, pur amandolo alla follia, il nostro ragazzaccio non riesca ad affrontare il genere che fu di John Ford e Sergio Corbucci con la stessa disinvoltura, sfrontatezza e capacità di rinnovamento con cui ha invece affrontato e reinventato tutti gli altri generi. Di per sè, chissenefrega. Non è affatto un obbligo rinnovare ogni genere cinematografico esistente; però, se inizi a dichiarare che farai un film omaggio agli spaghetti-western, che nessun altro al mondo conosce il genere come te, che riempirai il girato di inside jokes pazzeschissimi e citazionismi sempre più estremi... sei TU che ti infili nella ragnatela e rischi di rimanere impigliato nelle tue stesse menate. Io mi limito a giudicare i risultati partendo dalle premesse che Tarantino stesso ha posto in essere. E' lui che ha cercato di replicare la formula Pulp Fiction allo spaghetti western, non io che gliel'ho chiesto. Per me potrebbe fare anche una commedia sentimentale con John Cusak e Stefano Accorsi... ma se fa film "alla Tarantino" - e gli ultimi due lo sono senz'altro - allora lo giudico secondo gli standard che lui stesso ha posto.
    The Hateful Eight è indiscutibilmente un buon film (gli ho dato comunque 7), ma non è un capolavoro. Se devo salvare tre film di Quentin, questo non ci rientra. Anche se nel film ci sono cose bellissime e straordinarie. Ciao



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