Ci sono film che li ami o li odi…
storie che ti prendono, oppure che ti irritano fin dalla prima inquadratura…
“The fall” appartiene senz’altro alla tipologia dei film “prendere o
lasciare”.
Tarsen Singh non fa sconti e stila
il manifesto della propria personale poetica.
Il regista di origini indiane, si
sa, è un videoclipparo geniale nonché uno degli autori di spot pubblicitari più
belli di sempre:
è anche per merito (o per colpa) di gente come lui se ascolteremo il prossimo greatest hit dei
R.E.M. o se ci compreremo l’ennesimo paio di Nike. Il suo mestiere consiste nel solleticare i
desideri, nello stuzzicare gli appetiti, nel suscitare emozioni verso oggetti
più o meno superflui attraveso la carica evocativa e suggestiva delle immagini...
E il mestiere lo conosce alla
perfezione: il mio nome è Singh, Tarsen Singh, e
so creare immagini da dio.
La sequenza iniziale di “The fall”, uno slowmotion di struggente bellezza
fotografica e di rara perfezione compositiva, descrive l’incidente nel quale lo stuntman Roy
Walker ha perso l’uso delle gambe. La scena ha qualcosa di veramente magico e potente, di terribile e meraviglioso.
Non credo di offendere nessuno se dico che von Trier (“Antichrist”; “Melancholia”)
e Malick (“Tree of Life”) dovrebbero offrire al regista indiano quantomeno un caffè...
Roy, come dicevamo, è paralizzato
e trascorre la convalescenza su un letto di ospedale. In cuor suo vorrebbe morire per un amore non
realizzato (l’incidente, probabilmente, era un maldestro tentativo di suicidio).
Con lui, in ospedale, c’è anche Alexandra (l'incredibile Cantica Untaru),
una piccola bambinetta bulgara. Anche lei è vittima di una caduta: si è rotta
un gomito mentre veniva impiegata nella raccolta delle arance.
Roy e Alexandra stanno dalla
stessa faccia, assolutamente sbagliata, della medaglia. Sono quelli che hanno
sempre perso e che perderanno sempre. Dall’altra parte ci stanno quelli che vincono: gli
attori famosi del cinema, i latifondisti dell’assolata California, le belle
donne e tutto quello che loro non saranno o non potranno mai avere. Se si avvicinano troppo ai loro
desideri il loro destino è uno solo: quello di Icaro.
Entrambi sono pedine
sostituibili, elementi occasionali e facilmente rimpiazzabili della macchina
produttiva.
Entrambi sono prigionieri del
sogno che producono. Lui, costretto a gettarsi da cavalli al galoppo, da ponti
vertiginosi e da automobili in corsa ama purtuttavia il Cinema che non ricorderà mai il suo
nome, eternamente oscurato dalla fama degli attori a cui risparmia i pericoli
del mestiere. Lei, dal canto suo, adora le dolci arance californiane, senza
rendersi conto che quei frutti profumati sono la ragione del suo sfruttamento e
del suo illegittimo impiego.
Non c’è sistema peggiore di
quello che ti sfrutta illudendoti amare quello che fai.
Una didascalia ci dice che ci
troviamo nella Los Angeles degli anni ’20. Il posto ed il momento sono proprio
quelli giusti… già, perché quello che d’ora in avanti ci attende è una sorta di
viaggio dentro la magia dello sguardo, all’inseguimento della magnificenza
delle immagini e nei meandri della pura bellezza del vedere. Sono gli albori
della scintillante industria di Hollywood decantati e reinventati da un regista
indiano che ce l’ha fatta. Tutto è splendido, meraviglioso e scintillante, anche
se tutto è artificio, inganno e finzione… Una controfigura si getta da un ponte e un
attore si gode la fama. Il lavoro irregolare di una bimbetta immigrata di
cinque anni si oblia dentro la dolcezza degli agrumi californiani. Come nel "Prestige" di Nolan, il sistema ci ammalia promettendo meraviglie a patto di non cedere alla tentazione di indagare i meccanismi che le generano: tutti vogliono vedere sparire la colomba nella gabbietta e nessuno deve scoprire la bruttissima fine che le tocca fare (ve l’avevo
già detto che Singh è un regista di pubblicità?).
Roy e Alexandra stringono un’insolita
alleanza. Il patto è che lei dovrà aiutare l’uomo a procurarsi della morfina (con
la quale potrà completare il proprio intento suicida); in cambio, lui le
racconterà la storia “di amore e di
vendetta” dei sei valorosi che osarono sfidare il perfido governatore
Odius. Questo racconto nel racconto è una favola moderna fatta di amicizia,
sacrificio, amore, morte, dolore e riscatto. Se non fosse che Singh è un indiano
sikh sembrerebbe la più grande celebrazione del mito americano: l’impossibile è
possibile.
Il tono fiabesco e leggero,
tuttavia, non tragga in inganno. Il film sembra mantenere molto più di quel
promette (ma non era un regista di pubblicità?).
“Chiudi gli occhi. Le vedi le stelle?” domanda Roy alla piccola
Alexandra all’inizio del suo racconto. Potrebbe essere una valida alternativa
al più inflazionato “c’era una volta”,
ma potrebbe anche essere la morale di tutta la fiaba, per una volta nascosta
nel preambolo e non svelata nell’epilogo. Forse a voler sottolineare, fin dalle
premesse, come la luce della fama sia qualcosa di irreale che si può vedere
solo con gli occhi della fantasia e dell’immaginazione. Non importa che un
attore si getti veramente da un ponte, l’importante è che riesca a farcelo credere.
In fondo, quello di Roy è il racconto di uno stuntman disilluso che dà alla
propria nemesi il volto dell’attore che gli ha rubato la scena e l’amore.
Non sono sicuro del reale
significato del film. Sempre che Singh ne avesse uno ben preciso in mente.
Sicuramente c’è la volontà di
rendere un immenso omaggio all’arte della meraviglia, allo stupore della
visione, alla pura estasi retinica.
Il racconto di Roy è un trionfo
di luci abbaglianti, colori iper-saturi e scenari da urlo
Ma non posso smettere di pensare
a quell’invito iniziale: “chiudi gli
occhi”…
Chiudi gli occhi e lasciati
trasportare della fantasia...
Chiudi gli occhi e sogna...
Chiudi gli occhi e cedi alla meraviglia dell’immaginazione...
Chiudi gli occhi e sogna...
Chiudi gli occhi e cedi alla meraviglia dell’immaginazione...
Ma se vi fosse di più…?
Il film è stato girato in una
ventina di location, sparse in giro per tutto il mondo, alla ricerca spasmodica
di luoghi bellissimi, manufatti strabilianti e paesaggi mozzafiato.
Tutti… rigorosamente… veri…!!!
Ho letto da qualche parte che il
regista non ha voluto fare ricorso alla computer grafica: la vera bellezza non
è un trucco o un accorgimento di postproduzione.
Ecco, allora, che “chiudi gli occhi. Le vedi le stelle? ”
non appare più come un mero invito a
cedere alle lusinghe dell’immaginazione, ma piuttosto un monito a fare
attenzione alle sue insidie. È un invito a distinguere la bellezza
dall’artificio, il coraggio dalla sua rappresentazione, l’amore dalla sua
proiezione. Chiudere gli occhi permette di entrare nel sogno, ma questo facilita
la sottomissione alla lusinga, consente di credere alle promesse di gloria e alle
possibilità di riscatto dalla miseria del quotidiano. La vita vera, invece, è un paio
di gambe spezzate ed il bieco sfruttamento del lavoro minorile che esistono
solo perché si è voluto continuare a guardare con gli occhi sigillati (ma Singh
non era uno che faceva pubblicità?).
Nel racconto di Roy sei prodi
condottieri bramano vendetta per i torti subiti. C’è uno schiavo di colore, un
dinamitardo di origini italiane, Charles Darwin, un mistico, un indiano
spadaccino e un eroe mascherato. Ognuno di loro ha il volto di un personaggio
dell’ospedale: un medico, un paziente, un semplice trasportatore di ghiaccio…
Roy stesso impersona il condottiero mascherato e, naturalmente, il perfido
Odius non può che avere le sembianze dell’attore a cui il narratore faceva da
controfigura e che sta con la donna dei propri sogni.
Come nel cinema, finzione e
realtà si sovrappongono e si confondono continuamente. Ma l'immaginazione e la fantasia, come detto, sono pericoli e non rifugi. Di fantasia ci si ammala, di illusione si può morire (emblematica e niente affatto casuale la malattia immaginaria del paziente psicosomatico).
Alexandra sa perfettamente di ascoltare un racconto, ma non riesce a viverlo come tale e non ne accetta le svolte negative; soffre, piange e si dispera per la sorte dei protagonisti fino al punto di entrare lei stessa nel racconto, appropriarsene e lottare con l’originario narratore per modificarne l’epilogo. Perché almeno i sogni devono avere un lieto fine. Chiudi gli occhi!
Alexandra sa perfettamente di ascoltare un racconto, ma non riesce a viverlo come tale e non ne accetta le svolte negative; soffre, piange e si dispera per la sorte dei protagonisti fino al punto di entrare lei stessa nel racconto, appropriarsene e lottare con l’originario narratore per modificarne l’epilogo. Perché almeno i sogni devono avere un lieto fine. Chiudi gli occhi!
Ma Roy è stanco di vivere e si è
stufato di credere nel suo stesso sogno. Il problema è che vuole trascinare con sè anche il suo personaggio, l’eroe mascherato, che ormai giunto al duello finale sta per
venire sopraffatto dal perfido Odius.
La bimba protesta: piange, scalcia e singhiozza. Roy le ricorda che è solo un racconto e che è tutta finzione e che non ha più voglia di lottare, neanche nei sogni.
Ma i sogni sono forti ed i desideri
si insinuano nella nostra coscienza al punto di non lasciarci altra possibilità che
cedervi (e se non lo sa uno come Tasen Singh... ve l'ho detto che viene dalla pubblicità?): così il cavaliere solitario riesce a sopraffare il proprio acerrimo nemico regalando alla piccola Alexandra l'agognato happy ending.
La vera vittoria, tuttavia, non è
rappresentata dalla caduta di Odius, ma nel rifiuto del falso amore impersonato
dalla bella principessa ora pronta a buttarsi tra le braccia del vincitore. Il cavaliere, finalmente, capisce di essere stato prigioniero delle proprie illusioni e rinuncia alla ragazza dopo averla inseguita per mari e monti.
La vita non è un sogno e i sogni non aiutano a vivere meglio. La vita, piuttosto, prova continuamente a venderci illusioni irrealizzabili al solo scopo di tenerci occupati in attività orribili nella speranza, un giorno, di potercele permettere.
Singh ci ricorda che il cinema è illusione. Può dare sollievo, emozionare e perfino incantare, ma l'illusione può dare assuefazione e diventare la più terribile delle prigioni. Non bisogna mai confondere la realtà con la finzione, altrimenti si rischia di vivere la prima in funzione della seconda.
Singh ci ricorda che il cinema è illusione. Può dare sollievo, emozionare e perfino incantare, ma l'illusione può dare assuefazione e diventare la più terribile delle prigioni. Non bisogna mai confondere la realtà con la finzione, altrimenti si rischia di vivere la prima in funzione della seconda.
L'epilogo, per i nostri eroi, ha il sapore dolce-amaro del risveglio dopo un lungo sogno: la piccola Alexandra torna a fare la bracciante negli agrumeti della California, mentre Roy si deve accontentare di un risarcimento dagli Studios.
Decisamente la vita non è un sogno.
Ma non è un finale tragico. Non del tutto.
Non si sa se Roy continuerà il mestiere. In fondo non è importante. Quello che conta è che anche Alexandra abbia imparato a distinguere la realtà dalla finzione. Forse questo non le cambierà la vita, ma almeno la renderà più resistente alle lusinghe delle false promesse. Ogni volta che la bimba vedrà al cinema una sequenza spettacolare vedrà l'amico Roy e non l'immagine di un attore famoso. Dietro quei sogni che scorrono a 24 fotogrammi al secondo c’è sempre un inganno e un'illusione. Ora la piccola lo sa e forse, quelle arance, cominciano già ad aver un sapore meno dolce.
Quanto al resto, provare anche solo a descrivere
la bellezza delle immagini sarebbe, nella migliore delle ipotesi, un frustrante
ed inutile esercizio di stile. Paesaggi acquatici, dune desertiche, risaie
verde smeraldo, città turchesi, palazzi rajastani, piramidi egizie,
prigioni labirintiche… è come se le architetture di Esher si fossero
materializzate dentro un cartone animato girato da Salvator Dalì.
A voler pensar male, potrebbe
sembrare che “The fall” miri più a
stupire che a raccontare, ad ammiccare piuttosto che a significare, a vendere
piuttosto che offrire.
Tuttavia, credo che Singh abbia
avuto il merito, pur tra mille incongruenze, ambiguità e contraddizioni, di
aver dato vita a un’opera magnifica, unica e sublime il ricordo della cui
visione appagherà di ogni incertezza interpretativa ed ermeneutica.
Che un lercio videoclipparo,
nonché regista di spot televisivi, sia l’artefice di un’opera enigmatica e
misteriosa, indecifrabile ed ambigua, sublime e contraddittoria credo costituisca il più bel complimento che io possa fare a Mr. Singh.
GIUDIZIO SINTETICO: Magari non vorrà dire nulla (anche se io mi sono fatto tutto un mio viaggio...), ma in ogni caso lo dice veramente da dio.
VOTO: 7+
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